Parafrasando una nota citazione filmica, si potrebbe scrivere “È la stampa, bruttezza!”. In effetti, questa stampa italiana, contestata e depotenziata (come nel limite estremo di 100.000 copie dell’inserto di Repubblica spedite al macero), priva di editori davvero indipendenti, è ulteriormente messa all’angolo e coartata dai propositi contenitivi del Governo. Sembra un’azione concertata. Da una parte, la richiesta di un anonimo componente della maggioranza, puro esecutore di ordini venuti dall’alto, che propone una recrudescenza del reato d’opinione ovvero l’appesantimento delle pene carcerarie per reati legati alla diffamazione; dall’altra, un pedale schiacciato sulla censura televisiva, ipotizzando che il Governo possa avere pieno diritto di parola e senza limiti di tempo nell’esternare elettoralmente le proprie scelte politiche. Al quadro già pesante si era inserita, con malcerto tempismo, anche la proposta della Boschi di far pesare la par condicio non solo per i rappresentanti dei partiti, ma anche per i giornalisti, dunque ipotizzando palesemente che ciascuno di loro, invitato a un talk show, potrebbe essere assimilato a una tendenza, a uno schieramento, così manifestando il più grande disprezzo per le regole della deontologia.

Attacco concentrico aberrante che fa capire come l’Italia, più che nei binari di un giornalismo liberale indipendente e vivace, si collochi in un oscurantismo di stampo iraniano. Ma come, si tentava di liberare il reato di opinione dalle grinfie del delitto penale evitando il carcere in cambio di appesantiti risarcimenti economici, quando arriva tal Berrino di Fratelli d’Italia che presenta un emendamento davvero fuori dall’ordine delle cose? Il malcapitato poi ha pensato bene di ritirare l’assurda mozione. L’Articolo 21 di una Costituzione spesso vilipesa non deve essere un esercizio di lettura frequente da parte dei rappresentanti della destra, che sanno di influire su un quarto potere dimesso, in costante ritirata rispetto ai fasti degli anni ’70 o ’80.

Battere il ferro finché è caldo sul versante della costrizione del condizionamento. Perché qual è l’ideale della politica tutta? In soldoni, la capacità di ricatto nei confronti della classe giornalistica. Tenere al guinzaglio i teorici rappresentanti del libero pensiero. Comprare i giornalisti con la sinecura di incarichi ben ricompensati o condizionarli. Un gretto progetto che è di “sostituzione etica” e non più etnica. Mosse di un progetto più ampio, condibile con le uscite (o gaffe) di alcuni rappresentanti della coalizione. Come dimenticare quando il Ministro della Cultura Sangiuliano, teorico portatore di un profilo alto, arruolò Dante nei panni del pensatore di destra dimenticando il reale status di guelfo, fedele al Papa? Oppure quando lo stesso si profuse nell’equiparazione di fascismo e comunismo, dimenticando che il primo è al bando dell’ordine civile, a differenza del secondo, defunto per riconoscimento comune.

In realtà, è proprio l’assenza di una reale cultura di destra (riconoscersi in D’Annunzio o Prezzolini è davvero un po’ poco) che alimenta questo disinvolto fervore censorio. Se davvero sono tramontati i tempi della par condicio, si sta sviluppando una tendenza che potremmo definire impar condicio. Un’ansiosa e letargica voglia di rivalsa.

Decisa ed energica è stata la reazione delle associazioni di categoria, consci che si è vicini al baratro di una professione. La segretaria generale della Federazione della Stampa, Alessandra Costante, denunciando il rischio di 4 anni e mezzo di carcere (unito al pericoloso vulnus in atto con le querele temerarie), ha descritto le mosse come un ulteriore passo verso la Russia, la Cina o la Bielorussia. Ci si può scandalizzare per quanto successo a Navalny quando si prova a delineare un quadro totalitario della stessa densità?