Quando la polvere, soprattutto dei drammatici avvenimenti di gennaio 2021, si sarà depositata e gli storici potranno guardare con maggiore chiarezza e valutare con maggiore serenità i meriti e demeriti dell’amministrazione Trump, una cosa emergerà con chiarezza: l’importanza dell’aspetto caratteriale, del “fattore umano”, dell’ex-presidente degli Stati Uniti. Molte delle sue decisioni sono state prese senza tenere alcun conto dell’opinione dei suoi consiglieri e degli esperti perché dettate dal suo desiderio di apparire sempre un vincitore, anche se solo di facciata e in spregio alle regole. Del resto, in campagna elettorale, Trump aveva fatto un suo vanto il fatto di poter pagare tutti gli esperti che voleva (e implicitamente di poterli licenziare): e aveva affermato di correre per l’uomo comune e contro le élite intellettuali e del potere. In questa sua considerazione della competenza come una merce, nel rifiuto dell’expertise, Trump è stato un vero populista. Ed è stato straordinariamente anti-americano.

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Trump aveva condotto la sua singolare campagna elettorale al grido di «facciamo di nuovo grande l’America» e «rimettiamo l’America al primo posto», presentandosi dunque come un patriota contro le élite cosmopolite, che sfruttano la globalizzazione per arricchirsi a spese degli operai e degli uomini comuni d’America, in nome di un ritorno ai veri valori americani. Ed è proprio questo il punto che voglio approfondire qui, perché ritengo che in realtà Trump sia l’assoluta antitesi di quei valori fondanti della democrazia americana nonché di quello che Tocqueville avrebbe definito lo ‘spirito’ degli Americani -quell’ethos che caratterizza la visione del mondo americana.

Dalla sua biografia e dai suoi discorsi pubblici un tratto dominante emerge con chiarezza: Donald Trump ritiene che solo i vincitori passino alla storia, apparentemente esasperando quell’ideologia del ‘vincente’ così tipica dell’iconografia americana. «I vincenti non sono perdenti!» -sentenziò contro Hillary Clinton- condensando il suo pensiero in una tautologia che avrebbe fatto la gioia di Wittgenstein. In realtà le cose sono assai diverse. Certo, l’America ha in generale il culto del vincitore e uno degli epiteti più diffusi per bollare quello che in italiano definiremmo un povero idiota, o più volgarmente uno sfigato (ossia sfortunato, dando la colpa alla sorte) è loser, ‘perdente’. Lo dicono anche le ragazzine del loro ex-fidanzato, sebbene a 16 anni sia un po’ presto per fare un bilancio e definire uno un perdente. Ma questo culto della vittoria ha un contraltare importante: il fair play, il giocare sportivamente e secondo le regole. Sia nello sport, sia nella vita, in affari come in politica.

Barare, non attenersi alle regole, va contro tutti i valori di lealtà, di dire la verità, che costituiscono il lascito puritano nell’ethos americano. Non a caso il verbo to cheat significa sia barare al gioco sia tradire la moglie o il marito, perché implica una negazione dell’importanza della fedeltà e della verità. Per avere una conferma è sufficiente osservare il trattamento che ha ricevuto l’ex campione di ciclismo Lance Armstrong, costretto a un pubblico bagno di umiliazione per aver usato doping e, ancor peggio, per aver negato il fatto: non solo è stato privato di tutte le sue vittorie, come è giusto perché ottenute con mezzi non sportivi, ma è stato additato come l’antisportivo per eccellenza, la negazione dei valori dello sport, il mostro da non imitare, una icona del male. Come osservava già Max Weber, “Honesty is the best policy” riassume la visione del mondo americana.

Ed è proprio qui che Trump si rivela intimamente anti-americano: Trump ha sempre ritenuto che la vittoria possa essere conquistata a qualunque costo, tanto negli annali della storia sono scritti solo i nomi dei vincitori e non il modo in cui hanno vinto: qualunque mezzo è valido per vincere: ingannare, ricattare, usare pratiche scorrette, mentire, infischiarsene delle regole e del bene comune. Trump si è definito ‘furbo’ per non avere pagato tasse per decenni grazie a un abile lavoro ai confini della legge dei suoi commercialisti: ci penseranno i pubblici ministeri a indagare se quei confini sono stati superati.

Quello che è certo, in ogni caso, è che Trump non è affatto l’emblema del vincitore americano. Non tanto perché ha dichiarato bancarotta 4 volte, un dato tuttavia già di per sé rivelatore, ma per come ha sempre condotto gli affari. Durante la campagna elettorale del 2016 i democratici diedero voce ai tanti piccoli imprenditori che Trump aveva truffato o ricattato: il commerciante di pianoforti che gli aveva fornito gli strumenti in uno dei casinò di Atlantic City, che Trump aveva chiuso quando i guadagni non erano all’altezza delle aspettative, che si era sentito offrire il 30% della cifra che aveva a credito: e tanti altri piccoli imprenditori, ricattati e indotti ad accettare cifre assai minori per non trovarsi ingolfati in una procedura fallimentare. Considerarsi furbi per essersi arricchiti e aver vinto contro le regole morali e giuridiche del proprio paese è profondamente anti-americano.

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Vi è un altro aspetto a mio avviso interessante. Ponendosi deliberatamente contro le élite, Trump ha affermato di voler ridare vita al “sogno americano”. Ma lui stesso è l’antitesi del sogno americano. Figlio di un palazzinaro del Queens, Trump è stato condannato assieme al padre per aver violato la legge che proibisce di discriminare in base a razza o religione i potenziali inquilini; e questo durante l’amministrazione Nixon, non certo un esempio di pensiero liberal e attento ai diritti civili delle minoranze. Trump dimostra nella sua persona che chiunque nasca miliardario in America, se non è del tutto stupido, può rimanere miliardario: non proprio la quintessenza del sogno americano, che esalta chi si fa dal nulla solo grazie alla propria intelligenza, determinazione e lavoro.

Vi è un ultimo aspetto che mi preme sottolineare per evidenziare l’importanza del fattore umano nel caso di Trump e il suo anti-americanismo. «Il carattere è il tuo destino» sosteneva il filosofo greco Eraclito ed è stato innanzitutto il carattere a determinare i due errori politici fondamentali che hanno provocato la sconfitta elettorale di Trump. La sua diffidenza verso i possessori di una competenza specifica come gli scienziati, il suo anti-intellettualismo, e più in generale la sua insofferenza per chi lo contraddice hanno indotto Trump a sottovalutare enormemente la gravità dell’epidemia da Covid-19, da lui bollata come «una bufala dei democratici», per poi ripiegare sulla denominazione di “virus cinese”, per attribuire alla Cina la colpa della propria impreparazione, inadempienze e ottusità.

Analogamente, il suo evidente razzismo, che prescinde da qualunque considerazione intellettuale o politica e che lo accomuna alle tesi dei suprematisti bianchi, gli ha impedito di condannare con la necessaria fermezza le colpe degli agenti di polizia nel caso dell’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Le giuste richieste di un’indagine e di punizione dei colpevoli sono così degenerate in proteste di massa e in scontri razziali come non si vedeva dagli anni Settanta del secolo scorso. Due errori politici gravissimi, e prima ancora due errori umani di valutazione ed empatia, che gli sono costati la rielezione.

Quella di Trump non è l’America che vogliamo perché è anti-americana, perché va contro ai principi giuridici e ai valori profondi degli Stati Uniti. Ma voglio qui concludere con una nota positiva. Certo, vedere il Campidoglio, il cuore della democrazia americana, assaltato come in una repubblica delle banane è uno spettacolo sconcertante e terribile; come pure vedere i soldati della Guardia Nazionale dormirvi dentro per prevenire altri incidenti, cosa che non avveniva dal 1864, al tempo della guerra civile di secessione. Ma questi eventi, come pure tutti i quattro anni dell’amministrazione Trump, dimostrano che la Costituzione americana, con i suoi pesi e contrappesi, la Corte Suprema, che non si è mai dimostrata partigiana, le leggi ordinarie degli Stati Uniti sono state in grado di contenere l’eccentricità e la potenzialità eversiva di un presidente che si sentiva superiore a tutto e a tutti. Tutti gli uomini politici americani, anche repubblicani, non hanno esitato a scegliere la Costituzione invece che il presidente. Ribadendo l’importanza fondamentale della democrazia hanno dimostrato che i valori incarnati nella Costituzione sono ancora vivi nell’attuale generazione di politici.

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Certo, il successo di Trump alle elezioni del 2016 è paradossale e significativo ad un tempo. Paradossale, perché un miliardario, pluri-divorziato, registrato come elettore democratico a New York, che prometteva di abbassare le tasse sulle rendite finanziarie, ai ricchi e alle grandi industrie in modo che i benefici si spalmassero poi in basso, è stato votato da elettori repubblicani, conservatori, immigrati e operai, vincendo in stati precedentemente democratici. Significativo per chi ha a cuore il futuro della democrazia americana, perché ha rivelato l’esistenza di divisioni troppo profonde tra élite e gente comune, tra governanti e governati, tra ricchi e poveri, tra bianchi e non-bianchi, dove la percezione del privilegio, vero o presunto, può essere il detonatore di scontri esplosivi.

Per fare nuovamente grande l’America non è necessario avere la bacchetta magica né operare scelte rivoluzionarie: è solamente necessario seguire la tradizione dei valori di governo della legge (rule of law), inclusione e diritti civili che l’America incarna nella costituzione e che ora richiedono di agire coerentemente per creare gli Stati ri-Uniti d’America. Starà al presidente eletto Joe Biden dimostrare che la tradizione politica americana punta alla costruzione di ponti e non di muri, perché vi hanno contribuito persone di origine assai diversa ma accomunate dall’idea di costruire un «governo del popolo, per il popolo e da parte del popolo», nella celebre frase di Lincoln. E, a due giorni dalla festa nazionale che giustamente lo celebra, voglio usare le parole del reverendo Martin Luther King, jr per ricordare che «esiste un sogno profondamente radicato nel sogno americano», e questo è il sogno di una nazione unita negli ideali della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione.

Giovanni Giorgini

 

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