Per la generazione del “Tutti” degli anni settanta, l’Europa segnava la sintesi di atteggiamenti e stati d’animo, distinti ma complementari:
- una voglia di impulsi generosi e spazi ampi (dalla “nuova frontiera” kennediana alla “Patagonia” di Bruce Chatwin, per confluire nella definizione, cara a Claudio, del “periodico giovanile, europeista, terzomondista, indipendente”);
- il bisogno di volgere in positivo il rigetto degli “opposti estremismi”, affidandosi ad un solido vettore di trasformazione, che non fosse né utopistico, né reazionario;
- la naturale evoluzione del patriottismo appreso in famiglia verso un disegno istituzionale più complesso ma assolutamente coerente con i valori civici testimoniati dagli eroi del nostro passato.
In fondo, eravamo ancora relativamente vicini alla memoria delle due guerre mondiali ed il bisogno morale di un “punto di non ritorno” si faceva sentire. C’era ancora qualcosa di tutto ciò nel viaggio in torpedone che facemmo per essere a Strasburgo all’apertura del primo Parlamento Europeo eletto a suffragio universale diretto nel luglio del 1979. Speravamo che, da allora in poi, una volontà popolare europea, necessariamente virtuosa e lungimirante, avrebbe prevalso sui meschini egoismi particolari del passato.
Eravamo tremendamente ingenui e siamo stati travolti anche dalla pigrizia nazionale di confidare troppo spesso in una sorta di “delega in bianco” all’Europa. Abbiamo teorizzato il “vincolo esterno”, che però non è più bastato quando il gioco si è fatto duro. Qualcuno ha scritto che “non c’è odore peggiore della bontà andata a male”. Così forse si giustifica, almeno in parte, il livore anti-europeista che, negli ultimi tempi, aveva attecchito anche da noi.
Poi è arrivato il coronavirus. E l’Europa, all’inizio, ha dato il peggio di sé, in termini di impreparazione, grettezza e miopia. Soprattutto in Italia, il momento è stato drammatico e ci siamo sentiti come abbandonati. Così, per fortuna, non è stato. E non solo per altruistica solidarietà ma anche perché, per citare Papa Francesco ma in fondo anche Keynes, è emerso ancora più chiaramente che “siamo tutti sulla stessa barca”.
Non basterà però non affondare tra i marosi della crisi post-pandemia e vaccinarci per tempo contro i prossimi virus. Dovremo anche preservare i nostri approdi futuri, di fronte all’innalzamento del livello dei mari per il riscaldamento globale. Il “green deal” è una priorità ineludibile, come lo sono tutti i 17 obiettivi dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
E non basterà neanche pensare in grande, se non accompagneremo questo sforzo con gesti concreti, negli spazi che ci saremo ritagliati. Ricordando gli orticelli cari a Voltaire. “Glocal” può suonare come buffa espressione ma riesce mirabilmente ad esprimere questa sintesi quasi ossimorica. L’antropocene si salva solo così. Bene quindi che il Consiglio Europeo di dicembre accompagni la EU Next Generation con un ulteriore innalzamento del livello di ambizione per la decarbonizzazione.
Parliamoci chiaro. Se vogliamo dare una mano in queste trasformazioni epocali, l’unica, concreta possibilità per noi passa attraverso l’Europa. Gli ingenui sognatori degli anni settanta, fattisi forse un poco più saggi, la pensano ancora così.