Per le situazioni gravi i pannicelli caldi non servono.
Credo che la pandemia di Coronavirus, nella sua drammatica emergenza, abbia dimostrato che, a fianco di modificazioni essenziali del nostro modo di vivere, sia fondamentale procedere ad una riforma strutturale del sistema tributario. Del sistema tributario – ripeto – e non di qualche sporadico ritocco di natura congiunturale di tributi che meriterebbero di essere profondamente ripensati e ridefiniti nel loro complesso alla luce dei presupposti della semplificazione e dell’organicità.
Con le solite tasse sulle sigarette o sulla benzina o con quelle innovative sulle bevande edulcorate o sulle merendine non si va da nessuna parte. Ed anche un piccolo taglio delle aliquote IVA, destinato a durare l’espace d’un matin, si rivelerebbe tutt’altro che decisivo. E neppure con un’ulteriore diminuzione dell’utilizzo del contante, che oltretutto comporterebbe una perniciosa contrazione dei consumi.
Il problema non è l’uso del contante, sul quale almeno non gravano onerose commissioni bancarie; ma che la gente non usi più contante di quanto possa dimostrare di avere guadagnato. È questo che un’Amministrazione finanziaria efficiente deve riuscire ad accertare; e non se un tizio spende i soldi che ha guadagnato – e dichiarato – usando la moneta, gli assegni o le carte di credito.
Detto ciò, una riforma fiscale reale e coraggiosa ci starebbe tutta in questo nostro Paese. La questione è complessa, ma in questo scritterello mi permetto di offrire un piccolo contributo. In estrema sintesi, la proposta è quella di consentire a tutti i contribuenti di dedurre dai propri guadagni tutto quello che spendono (o quasi), come a grandi linee accade in Stati sicuramente non meno avanzati del nostro, quali gli U.S.A. o la Germania.
Oggi abbiamo nella sostanza due grandi categorie di contribuenti: quelli che sono tassati sui ricavi, senza poter dedurre i relativi costi (ad es. i lavoratori dipendenti e i pensionati) e quelli che sono tassati sul reddito, ossia sulla differenza tra i ricavi e i costi dell’attività (ad es. imprenditori, professionisti, artisti e lavoratori autonomi in genere).
Perché un lavoratore dipendente non può portare in deduzione dal salario o dallo stipendio i costi dei trasporti che sostiene per recarsi al lavoro? o quelli dell’autoparcheggio? o quelli della trattoria dove si reca ogni giorno a mangiare un boccone? Se gli fosse consentito dedurre questi costi, e beninteso tutti gli altri analoghi, contro esibizione di fatture o ricevute fiscalmente regolari, vorrebbe dire che i suoi fornitori e prestatori di servizi dovrebbero necessariamente emettere fattura o ricevuta: cosa che non tutti ora fanno, quanto meno per l’intero.
Ma lo stesso dovrebbe dirsi anche per i contribuenti tassati su un reddito lordo, come gli imprenditori – commercianti, artigiani, etc. – e i lavoratori autonomi, i quali dal guadagno dell’attività dovrebbero potersi detrarre, per non fare che qualche semplice esempio, i costi degli abiti che devono indossare per esercitarla, o quelli della palestra o delle attrezzature sportive a cui ricorrono per combattere lo stress o per tenersi in forma, od ancora, soprattutto per le donne in carriera, i costi del coiffeur o dell’estetista. Con la conseguenza che, anche in questo caso, sarti, parrucchieri, trainer, estetisti e simili dovrebbero emettere regolari documenti giustificativi: cosa che non consta attualmente tutti facciano.
Insomma, così facendo si allargherebbe moltissimo l’area della dichiarazione dei proventi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi, con pari riduzione delle fasce di evasione.
Ovviamente, non tutti i costi di natura personale meriterebbero di venire ammessi in deduzione, e fra questi i costi per consumi nocivi o socialmente non commendevoli (per il fumo, i giochi d’azzardo, altri vizi e così via). Ma – una volta esteso l’elenco dei costi indeducibili – l’azione di accertamento tributario risulterebbe estremamente semplificata, sostanziandosi nel riscontro della regolarità documentale dei giustificativi di spesa indicati dai contribuenti.
E la maggior parte delle energie dell’Amministrazione delle Finanze potrebbe allora venire più proficuamente dedicata a contrastare la grande evasione fiscale, quale quella posta in essere da talune multinazionali che attraverso griglie di società di comodo sviano il pagamento delle imposte dovute in Italia verso paradisi fiscali siti in ogni parte del mondo (anche nell’Unione Europea) e – unitamente alle Forze armate dello Stato – potrebbe essere profusa nel deciso contrasto all’evasione fiscale di stampo malavitoso, che da sola trascina nell’economia sommersa un buon terzo del nostro prodotto interno lordo e senza la cui emersione ogni sforzo di risanare finanziariamente e moralmente questo Paese è destinato a rimanere inevitabilmente vano.
A condizione, naturalmente, che vi sia un’effettiva volontà politica in tal senso.