Ricordo i tempi in cui ancora giovani, lasciati da poco gli studi liceali, ci incontravamo e discutevamo senza limiti di orario per creare un periodico che riflettesse le idealità, i problemi, i progetti della nostra generazione: una generazione che non aveva conosciuto la drammatica vicenda della Seconda guerra mondiale ed era alla ricerca di una fratellanza tra i ragazzi della nuova Europa.
Eravamo difatti consapevoli che sarebbe toccato a noi tentare di costruire la ‘casa’ che avrebbe messo assieme tutti gli europei che avevano deciso, una volta per tutte, di gettarsi alle spalle il lungo capitolo millenario delle guerre fratricide.
Eravamo mossi da una grande passione civile, da uno spirito che intendeva dare seguito agli ideali post bellici di ricostruzione del tessuto sociale, politico e culturale che in fondo già andava prefigurando l’inarrestabile processo della ’globalizzazione’. Questo spirito si fondava su una formazione sempre più internazionale e che abbracciava, senza limiti di libertà, la conoscenza di culture internazionali: società, costumi, arti.
In quegli anni prendeva forma la nostra nuova grande nazione ‘Europa’ e noi ci sentivamo protagonisti di questo straordinario progetto. Oggi ciascuno di noi ha uno o più figli che, terminati gli studi universitari, hanno vissuto l’esperienza Erasmus, forse il progetto più importante della nostra nuova nazione. I nostri figli viaggiano per l’Europa e il mondo e guardano ai confini nazionali come noi da giovani guardavamo con affetto e tenerezza alle città e alle regioni di origine. La grande mutazione figlia di quelle idealità ha dunque preso forma con la nascita dell’Unione anche se nuove ombre si sono affacciate nella storia che nel suo procedere ha sempre, inevitabilmente, inciampi, ripensamenti che non arrestano il cammino ma possono ritardarlo.
La Brexit è stato uno di questi inciampi e il divorzio che ne consegue lascia in bocca una sensazione di amarezza e incredulità per chi come noi coltiva ancora le stesse passioni e idealità della giovinezza. Fa riflettere che questo storico ripensamento della Gran Bretagna di ‘recuperare l’antico orgoglio insulare’, di tornare a ‘essere padroni del proprio destino’, di ‘riconfermare la loro diversità e distanza dal resto dell’Europa’, solo per riprendere alcune recenti affermazioni di autorevoli politici inglesi, venga dalla terra che ha dato i natali a Shakespeare, il maggiore letterato del mondo anglosassone.
La vera identità di Shakespeare, come è noto, è ancora un mistero o quantomeno non si fonda su solide certezze. Al contempo non vi sono dubbi sul fatto che nella formazione e nell’arte di Shakespeare abbia avuto un’influenza fondamentale il pensiero di Montaigne, di Giordano Bruno, degli autori classici greci e latini.
In una delle più recenti biografie del ‘bardo’, di Peter Ackroyd, l’autore dell’opera, a proposito della formazione del grande drammaturgo, dedica, ad esempio, un passaggio di grande interesse e suggestione a una figura poco conosciuta della cultura europea dell’epoca: John Florio. Scrive il biografo shakespiriano: «…Shakespeare e il conte di Southampton (giovane aristocratico, appassionato sostenitore delle arti dell’epoca) avrebbero potuto incontrarsi in teatro o per mezzo di esso…». Esiste anche la possibilità che si fossero incontrati attraverso la mediazione del tutore di francese e italiano di Southampton, John Florio, nato a Londra (madre inglese e padre italiano), era figlio di rifugiati protestanti dall’Italia. Era un eccellente linguista, uno studioso esperto e un amante del teatro con qualche velleità censoria; dichiarava di vivere in «tempi stimolanti, e nel rigoglio dell’invenzione in cui ogni rovo è carico di frutti». Questi «tempi stimolanti» erano quelli di Shakespeare. Florio tradusse anche Montaigne in inglese, e questo lavoro fornì frasi e allusioni al ‘Re Lear’ e alla ‘Tempesta’. Oggi, quasi dimenticato, Florio fu un contemporaneo molto significativo di Shakespeare. Le commedie shakesperiane di quel periodo sono italiane per ambientazione, se non per sentimento, e la loro atmosfera può con ogni verosimiglianza essere attribuita all’influenza di Florio sul drammaturgo più giovane di lui di undici anni…Shakespeare mutuò molte espressioni e immagini dal dizionario di italiano compilato da Florio…Florio è una di quelle figure in qualche modo sfuggenti che compaiono di tanto in tanto nella biografia di Shakespeare, la cui importanza non è affatto proporzionale alla visibilità…
Dunque il più grande dei letterati inglesi ha le sue radici ben piantate nelle profondità del terreno culturale dell’Europa, se vi fosse ancora qualche dubbio sulla comune matrice identitaria tra il continente e l’isola.
Fa dunque sorridere tutta la retorica rispolverata in questi giorni dai Brexiter per celebrare questo insensato divorzio. La Brexit è tuttavia solo la manifestazione più evidente di un rigurgito di nazionalismo fuori misura, diffusosi in questi ultimi anni, all’origine di tanti disastri bellici del passato che ogni sincero europeista deve rifiutare.
Vorrei che le nuove generazioni, i nostri eredi, riprendessero con vigore quelle idealità che ci mossero allora, consapevoli che quello che ci unisce, come ci insegna l’opera di Shakespeare è molto più di quello che ancora ci separa e che la cultura è il più formidabile collante su cui dobbiamo puntare.
Ma queste cose i nostri figli lo hanno capito e oramai hanno imparato a vivere da europei.
Parafrasando il famoso inizio di un celebre e grandissimo romanzo del nostro risorgimento ‘Le confessioni di un italiano‘ di Ippolito Nievo, potrei scrivere: «Io nacqui italiano ai 2 di agosto del 1952 e per grazia di Dio morirò europeo quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo…».