«Qu’est-ce que la Méditerranée? Mille choses à la fois, non pas un paysage, mais d’innombrables paysages, non pas une mer, mais une succession de mers, non pas une civilisation, mais des civilisations entassées les unes sur les autres.»*
La descrizione di Fernand Braudel evidenzia l’unicità del Mediterraneo quale culla delle civiltà. Sin dai tempi di fenici, etruschi, cartaginesi e greci, il “mare-di-mezzo” divenne l’epicentro di traffici commerciali ed un ponte tra culture. Avendone assunto il controllo e formando un impero multietnico sulle sue coste, i romani lo ribattezzarono “Mare Nostrum”. Dietro la retorica egemonica, tale locuzione assume una connotazione più ampia, “nostrum” inteso come dell’impero, dei sui popoli e delle sue molteplici etnie (d’altronde molti imperatori non erano di origine italica, si pensi a Traiano). Quindi “Mare Nostrum” come senso di collettività e di appartenenza, un mare delle genti, governato appunto dallo ius gentium.
Oggi, a dieci anni dallo scoppio delle primavere arabe, viviamo un momento di forte instabilità mediterranea. Ecco quindi che al concetto di “Mare Nostrum” si sovrappone quello di “Terrae Nullius”. Quest’espressione identifica uno spazio geografico sul quale uno Stato abbia perso la sovranità, inducendo altri Stati ad estendere su di esso la propria influenza. Chiaramente l’intera superfice del Mediterraneo contemporaneo è sottoposta a differenti sovranità. Tuttavia nell’ultimo decennio l’area è stata caratterizzata sia dall’indebolimento di taluni soggetti statuali, fino alla balcanizzazione di Libia e Siria, sia da politiche marcatamente revisioniste dello status quo. Ad essi vanno aggiunte le divisioni europee ed il venir meno di un solido impegno statunitense a partire dalla presidenza Obama. Questi fattori inducono la percezione di un “Terrae Nullius” mediterraneo, un vacuum politico che ci riporta ad un quasi-stato di natura hobbesiano e spinge i governi ad incrementare il proprio peso geopolitico a discapito della stabilità regionale, della cooperazione, delle convenzioni internazionali e dei processi di democratizzazione.
Russia e Turchia si sono dimostrate particolarmente revansciste. La Russia ha rilanciato con vigore una politica di proiezione nei “mari caldi”. Nel 2014 il pericolo di perdere la base navale di Sebastopoli ha portato Mosca ad annettersi manu militari l’intera Crimea, così come la minaccia di veder cadere l’alleato siriano l’ha spinta a puntellare militarmente il regime. La politica estera multivettoriale del Cremlino si inserisce poi nel Caucaso post-sovietico e nei Balcani grazie alla storica partnership con Belgrado, si spinge silenziosamente nel contesto libico appoggiando il generale cirenaico Haftar attraverso compagnie di sicurezza private e stabilisce nuove basi a Port Sudan, adiacente al cruciale stretto di Suez.
Al contempo la Turchia ha sviluppato una propria concezione strategica del Mediterraneo, la “patria blu”, per riacquistare l’egemonia ottomana persa con il trattato di Losanna del 1923. Ankara mantiene in vita uno stato fantoccio nel nord di Cipro, promuove nell’Egeo una “diplomazia delle cannoniere” ed esplorazioni petrolifere che sfidano Atene e Nicosia, si insidia nello scacchiere libico inondando di truppe ed armi il governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU mentre in Siria occupa il confine settentrionale.
In passato l’Unione Europea ha dimostrato difficoltà nel promuovere una diplomazia coesa. Il vicinato europeo infatti da un “ring of friends” si è trasformato in un “ring of fire”. A questo hanno contribuito gli atteggiamenti ambigui di alcune capitali nei confronti della guerra civile libica, delle violazioni dei diritti umani in Egitto, così come verso l’attivismo turco e russo. La lenta reazione alla crisi migratoria e gli intoppi nell’allargamento ai Balcani hanno accentuato la percezione di una politica estera europea incerta.
Ma non tutto è perduto. L’entrata in scena di Biden negli Stati Uniti, la comune lotta al COVID-19 ma anche politiche europee mirate quali l’operazione navale IRINI, esercitazioni navali congiunte oppure progetti energetici quali EastMed e TANAP sembrano favorire la governance regionale. Mosca ed Ankara appaiono inoltre sull’orlo di un “Imperial overstretch”, ossia di un’azione esterna troppo dispendiosa rispetto alle reali risorse economiche del paese, che le rende più inclini al dialogo. Lo dimostra ad esempio la disponibilità del governo turco a riprendere i colloqui esplorativi con Atene.
Se il momento propizio è arrivato, bisogna saperlo cogliere. Iniziative quali l’Unione per il Mediterraneo ed il MED forum dell’Ispi favoriscono il dialogo, ma vi è la necessità di una cooperazione fortemente istituzionalizzata nell’ambito politico. Un Concerto europeo in chiave mediterranea (Consiglio politico-mediterraneo) porterebbe a conciliare i vari interessi nazionali per raggiungere soluzioni concordate. Le politiche neo-imperialiste e le fragilità statuali che alimentano la percezione del mediterraneo come “Terrae Nullius” verrebbero mitigate da una cooperazione strutturata. Si potrebbe nuovamente parlare di un Mediterraneo inclusivo, punto di riferimento per lo sviluppo economico ed il dialogo tra i popoli. Tornerebbe così ad essere davvero un “Mare Nostrum”.
*La Méditerranée, Fernand Braudel, éd. Arts et métiers graphiques, 1977, p. 8
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