Sulla carta, l’Italia è una Repubblica parlamentare, suddivisa dal punto di vista amministrativo in Regioni e Province autonome. Tuttavia per quanto riguarda la salute pubblica, la regionalizzazione del SSN (Servizio Sanitario Nazionale) la rende quasi una confederazione di Stati autonomi. Poco male in linea teorica, ma nell’applicazione pratica sono diverse le problematiche provocate da un simile assetto: in primo luogo, lo squilibrio dovuto alla distribuzione delle ricchezze del Paese genera un profondo divario Regioni “ricche” e Regioni “povere” e quindi una disparità tra cittadini che possono curarsi in modo ottimale e cittadini che non possono farlo. Questo malgrado il dettato costituzionale dell’articolo 32 che recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”. In secondo luogo, una diversa concezione della sanità tout court, più legata al territorio per alcune amministrazioni, necessariamente focalizzata sugli ospedali secondo altre, problematica forse sottovalutata fino ad oggi che però non manca di ricadute estremamente negative.
La crisi provocata dalla pandemia di COVID-19 ha reso urgente un ripensamento complessivo del “sistema salute” nazionale,
portando alla luce la necessità di un equilibrio maggiore non solo tra Regioni, ma anche tra la medicina del territorio e le prestazioni ospedaliere specialistiche. Solo un efficiente sistema di assistenza territoriale può infatti arginare il collasso dei reparti ospedalieri sovraffollati. Ne abbiamo parlato con Renzo Le Pera, Vice Segretario Nazionale FIMMG – Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, (http://www.fimmg.org/index.php?action=pages&m=view&p=1&lang=it ), organizzazione sindacale e associazione professionale che non ha mancato di manifestare a più riprese l’urgenza di interventi mirati a fornire alla medicina territoriale lo spazio necessario per tutelare al meglio la salute dei cittadini.
Dottor Le Pera, l’autonomia dei sistemi sanitari regionali è un asset da preservare o un ostacolo a un diritto alla cura davvero universale?
Le faccio subito capire subito il mio punto di vista: al referendum del 2001 sul titolo quinto della Costituzione io votai “No”. Perdendo (ride). In mancanza di un indirizzo centrale forte che si faccia garante per i cittadini, l’autonomia dei sistemi sanitari regionali aumenta le disparità tra Regioni che possono permettersi maggiori investimenti in Sanità e Regioni che non possono farlo, è un dato di fatto. A questo si aggiunga un ulteriore livello di disomogeneità, poiché non esiste una visione comune nemmeno tra le Regioni a Pil elevato: alcune amministrazioni investono maggiormente sugli ospedali e su strutture simili, mentre altre (poche a dire il vero) rafforzano la sanità territoriale.
Nel tentativo di dare garanzie a tutti i cittadini, a prescindere dalla loro residenza, nel 2002 sono stati introdotti i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Tuttavia anche in questo caso ci sono problemi per le Regioni meno ricche, perché se i parametri prefissati non vengono raggiunti scatta il commissariamento, che equivale a una paralisi dell’assistenza sanitaria. Con la pandemia questa disparità sono divenute ancora più lampanti.
Quale ruolo hanno avuto i medici di medicina generale nella gestione delle fasi critiche della pandemia? E’ stato giustamente valorizzato?
Credo di non poter essere smentito se affermo che una situazione di pandemia interessa il territorio più che le strutture
ospedaliere. Stando infatti ai dati resi pubblici dal Ministero della Salute, ogni 100 casi gravi che necessitano ospedalizzazione, ce ne sono circa novemila e novecento trattati a domicilio. Ebbene, di questi pazienti non si è parlato o quasi, questo perché la politica e, di riflesso, i media hanno dato risalto a quanto avviene all’interno degli ospedali. È una narrazione che colpisce emotivamente quella che si focalizza sulle terapie intensive troppo piene, sull’affanno del personale ospedaliero, sul numero di decessi e via discorrendo, ed è giusto farla. Non bisogna però dimenticare che ne esiste anche un’altra, passata sotto silenzio. Questo, dipende da una visione non unitaria della sanità pubblica, divisa in settori scarsamente comunicanti uno con l’altro.
I medici di medicina generale hanno lavorato e continuano a lavorare fornendo costantemente assistenza e informazioni, sulla base del rapporto di fiducia con gli assistiti che è uno dei pilastri della medicina generale. Hanno adempiuto alla loro funzione principale, ovvero quella di indirizzare verso l’ospedale solo le persone che ne avessero effettivo bisogno. Il ruolo svolto nel corso della pandemia è stato certamente valorizzato da parte della cittadinanza, ma è stato molto meno valorizzato da chi gestisce il sistema sanitario e dai media. Ne è prova anche una serie di valutazioni discutibili sulla protezione dei medici e del personale degli studi.
In che senso?
Per esempio, nel corso della primavera del 2020 alcuni assessori regionali sostenevano che i mezzi di protezione non dovessero essere dati ai medici di medicina generale in quanto non dipendenti . Ancora oggi alcune Regioni compiono scelte opinabili, basti pensare che il personale degli studi medici non viene ritenuto personale sanitario, con conseguenze importanti sul piano della tutela individuale e pubblica: mentre un amministrativo del settore sanitario è stato vaccinato per primo anche se si occupa della contabilità chiuso in un ufficio, il segretario o l’infermiere del medico di famiglia, pur stando a contatto costante con potenziali veicoli di contagio, verranno vaccinati solo in turni successivi.
A cosa è dovuta secondo lei questa disparità di valutazione?
Accennavo prima alla settorialità e alla scarsa comunicazione dei comparti del sistema sanitario italiano. La dirigenza del SSN è costituita prevalentemente da medici ospedalieri e clinici, che di conseguenza valutano le situazioni attraverso un’ottica molto specifica. Non è giudizio qualitativo delle capacità individuali, sia ben chiaro! Probabilmente se le parti si invertissero il risultato non cambierebbe affatto, perché ognuno di noi porta come stimmate all’interno di sé stesso le proprie esperienze e i propri problemi e, conseguentemente, fa fatica a vedere a trecentosessanta gradi l’esigenza di altre parti. Questo è uno dei motivi per cui, ad esempio ai ruoli politici dirigenziali è molto meglio che ci sia un politico che non un tecnico. Poi è bene che ci si avvalga delle competenze degli specialisti, ma di solito una visione politica è molto più complessiva.
A suo avviso esistono Regioni dove la pandemia è stata gestita in modo più efficace proprio grazie ad una sanità maggiormente legata al territorio?
Sarebbe strano il contrario! Ovviamente un discorso di valutazione della performance di risposta alla pandemia da COVID-19 deve essere fatto sempre al netto di una serie di considerazioni prettamente epidemiologiche, quali esordio e densità di popolazione. Fatte le opportune tare, è possibile affermare che dove c’è maggiore equilibrio tra territorio e ospedale si ottengono risultati migliori mentre dove è preponderante solo uno di questi due settori le performances sono più basse. Se prendiamo a esempio due Regioni abbastanza omogenee come Lombardia e Veneto (entrambe ascrivibili al novero delle zone a Pil elevato ed entrambe con amministrazioni di centro-destra) vediamo con chiarezza che la sanità veneta, più attenta al territorio rispetto a quella lombarda, ha avuto una risposta più efficace alla pandemia.
In che modo bisogna intervenire per favorire il rafforzamento della medicina del territorio?
Le posso dire innanzitutto quali sono i modi che non funzionerebbero. Ad esempio, sono scettico sulla proposta di far diventare i medici di famiglia medici dipendenti. Come se la contrattualistica assicurasse di per sé qualità, risultati, efficacia ed efficienza. Questo è un discorso che individua nella catena gerarchica una garanzia di efficienza. Ma i fatti dimostrano che non è necessariamente così. Qual è stato, ad esempio, il settore della sanità pubblica che ha funzionato peggio nel corso della pandemia? Il dipartimento di igiene e sanità, che doveva assicurare per legge il tracciamento, trovare in tempo utile gli stanziamenti, supportare l’elaborazione dei provvedimenti… non voglio fare polemica sterile, sottolineo tuttavia che non si tratta di medici convenzionati.
Tradizionalmente la medicina generale ha come figura rappresentativa il medico di famiglia che da solo con la sua borsa partiva dal suo studiolo e faceva il suo giro di visite, prima a cavallo poi in motorino. Con l’aumento della cronicità e il cambiamento delle caratteristiche sociali del paese, il medico singolo non è più sufficiente a garantire un livello adeguato di assistenza. È quindi necessario affiancare al medico di medicina generale un’équipe operativa sul territorio, che comprenda infermieri e personale di studio. Invece gran parte delle Regioni e della politica cosa dice? “Facciamo le Case della salute”. Questo però riduce la presenza capillare sul territorio, una caratteristica fondamentale della medicina territoriale. È un meccanismo che può funzionare solo in aree metropolitane (e preferibilmente nei quartieri centrali!), ma che diventa impensabile se consideriamo comuni piccoli o la popolazione sparsa. E se togli i medici dalle vicinanze di popolazione sparsa, peggio ancora se anziana o cronica, non è difficile immaginare cosa succede… Quindi non è una critica al sistema di per sé, ma un’esortazione verso l’elasticità mentale che consentirebbe di creare strutture adeguate alla realtà territoriale e sociale. Non si può continuare a pensare che il territorio italiano da considerare sia rappresentato solo da Milano, Roma, Bari o Napoli!
Servirebbe che la “voce della coscienza” arrivasse in alto, a quelli che si chiamano i tavoli decisionali…
Ma la voce arriva e qualcuno ascolta anche. Il ministro Speranza, che certamente non è un medico, ha compreso pienamente le nostre esortazioni che mirano a tutelare la popolazione e non certo a tutelare la categoria. Però a livello regionale la gestione della sanità e l’elaborazione delle strategie sanitarie non prestano ascolto a queste istanze. È palese nella gestione dei vaccini: in questa fase la medicina territoriale è scarsamente o pochissimo coinvolta, giusto? Occorre che la situazione cambi, perché non è possibili raggiungere una percentuale soddisfacente di popolazione affidandosi solamente ai centri o agli hub.
Non è possibile prendere come parametro l’intervento vaccinale sul personale sanitario, la categoria che per prima sta ricevendo il vaccino, perché si tratta di persone motivate, autosufficienti, in grado di riempire autonomamente i moduli richiesti (noi medici siamo diventati bravissimi, dopo anni di riempimento dei moduli) e che senza troppi problemi aspettano una, due, tre ore per essere vaccinati. Provi a immaginare cinquantamila ottantenni costretti a recarsi in un hub per le vaccinazioni, a riempire otto moduli, ad aspettare ore in fila per poi dover rispondere anche all’anamnesi. Se qualcuno crede che possa funzionare, auguri! Ma più probabilmente in molti preferiranno rinunciare a vaccinarsi. Per questo motivo è indispensabile dare un ruolo attivo ai medici di medicina generale, perché si rischia di non raggiungere l’obiettivo della copertura vaccinale e questo potrebbe avere conseguenze davvero tragiche per la popolazione tutta.