Per un po’ ho pensato che l’episodio che sto per raccontarvi potesse essere considerato come un pistolotto moralistico di un vecchio professore. Ma poi ho cominciato a leggere il libro di Colson Whitehead La ferrovia sotterranea, un romanzo storico ambientato nell’America dello schiavismo, prima della guerra di secessione.
Mio padre mi ha insegnato che un uomo non può commuoversi. Però coloro che oltrepasseranno le prime 50 pagine senza chiuderlo per sempre sono sicuramente persone di grande coraggio.
È una antologia di orrori, fisici e morali, perpetrati da uomini e donne come noi. Poi le guerre mondiali, il nazismo, il Ruanda e la Bosnia hanno continuato il rosso filo che giunge fino a noi nel cimitero del nostro mare e in un angolo dei Balcani, dove altri esseri umani sono costretti a vivere in un bosco ghiacciato. E proprio in questi giorni ricordiamo la Shoah.
Era una bella giornata ad Addis Abeba, tiepida e soleggiata, come una giornata di maggio a Roma. Avevo addosso un bel completo grigio, come si conviene a qualcuno che va a incontrare un ministro. Non posso dire che mi sembrasse una bella città, ma certamente è molto diversa dalle città africane dove ho lavorato. Andavamo a piedi, perché il mio albergo era abbastanza vicino al ministero, ma i due funzionari che mi accompagnavano affrettavano il passo.
La strada si allarga in una piccola piazza, e allora la vedo. Una donna è seduta là in mezzo, con le ginocchia chiuse da un lato. Tutto intorno a lei un cerchio di sassolini bianchi la circonda, quasi a voler segnare un confine. La magrezza del suo viso, delle sue braccia, e di quello che si vede delle sue gambe è impressionante. Non avevo mai visto la pelle di un essere umano aderire alle ossa. I suoi occhi sono lontani, e non c’è più dentro nessuno sguardo. Ho visto la miseria in tanti angoli del mondo, ma una donna così non l’avevo mai vista prima.
Mi sono fermato davanti a lei, e ho messo un ginocchio per terra. Le ho messo vicino i 50 dollari che avevo in tasca. «La sua bontà le fa onore, professore, ma purtroppo non serve a niente. Non lo vede che è già morta? In pochi minuti qualcuno le ruberà quei soldi». Mi alzo e li seguo: cominciavamo ad essere in ritardo.
Ho pensato a lei quel pomeriggio, mentre scrivevo il mio rapporto. Avevo fatto quello che potevo fare, come continuo a fare con coloro che chiedono l’elemosina davanti a una chiesa o ad un negozio di alimentari.
Sono buono e compassionevole? Avevo già cinquant’anni ad Addis Abeba, ma non riuscivo a capire perché quel gesto di compassione non riusciva a darmi nessuna gioia. Ma non dovrebbero sentirsi buoni coloro che danno aiuto a qualcun altro? Eppure ogni tanto quella donna mi tornava in mente: era per la sua magrezza, per il suo sguardo spento, perché stava morendo di fame? Ma quante volte vediamo alla televisione la sofferenza e la fame di uomini, donne e bambini? Oppure era perché l’avevo vista con i miei occhi?
Poi, finalmente ho capito che non avevo capito niente. La mia non era bontà o compassione, era vergogna.
Vergogna di essermi trovato di fronte a un altro essere umano al quale non eravamo stati in grado di assicurare neppure una vita. E quando, preparando pacchi alimentari per i dimenticati di Tor Bella Monaca, ho incontrato una ragazza Rom con la sua bambina, sapevo già che la mia era vergogna. Come quel giorno ad Addis Abeba, portare cibo a chi ne era stato privato, non dal coronavirus, ma da una comunità umana indifferente ed incapace mi provoca vergogna.
È sempre più urgente condividere la vergogna, perché essa è l’anticamera della responsabilità, quella che dovrebbe essere la forza di una comunità umana e di ogni democrazia.
Foto di apertura di omer yousief da Pixabay