La Grande Peste di Londra del 1665 e la conseguente chiusura dell’Università di Cambridge costrinsero il ventitreenne Isaac Newton a continuare per quasi due anni gli studi nel suo villaggio natale, nel Lincolnshire. Newton aveva con sé la Géométrie di Cartesio e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo. Il lockdown del giovane Newton è noto nella sua biografia come Annus Mirabilis: molto tempo dopo Newton lo descriverà come il suo periodo più creativo, che gli rese possibile «vedere lontano poggiando sulle spalle dei giganti». La libertà dagli impegni accademici gli consentì infatti di elaborare gli studi dei grandi del passato, per concepire le idee fondamentali del calcolo infinitesimale, della teoria gravitazionale e della meccanica che porterà il suo nome. A circa 350 anni dal suo lockdown, le teorie iniziate da Newton costituiscono parte consistente della formazione scientifica iniziale di molti curricula universitari, per intenderci dei corsi spesso chiamati Analisi Matematica I e Fisica Generale I.
Questo aspetto della vita di Newton ci appare oggi lontano e forse poco utile. Esso si riferisce infatti a una delle più geniali menti della storia, e ci si chiede se sia in grado di dire qualcosa a noi comuni mortali. Secondo un sondaggio condotto da IPSOS per Save the Children, l’anno 2020 è stato vissuto dal 46% dei giovani italiani dai 14 ai 18 anni come «tempo sprecato», ma il 38% dichiara che la pandemia ha consentito di «fare nuove esperienze» e il 32% di «scoprire nuove passioni». Colpiscono nel citato sondaggio IPSOS, articolato in ben 160 punti, la fatica dichiarata dagli studenti nel concentrarsi nella didattica a distanza (elemento che prevale sulle difficoltà tecniche di connessione alla rete), la difficoltà a rispettare il programma scolastico, e il forte auspicio per un rinnovamento didattico. Save the Children è nella lista di siti amici raggiungibili da queste pagine di TUTTI europa ventitrenta; nella sua sezione Pubblicazioni si trovano anche altri documenti che danno voce all’attuale situazione degli adolescenti.
Nel dibattito pubblico sulla scuola, sembra vi sia stata negli ultimi mesi una certa enfasi su aspetti logistici e organizzativi: quali scuole potevano rimanere aperte, in quali periodi, in quali regioni e in quali orari, con quali percentuali di presenze, con quali modalità di uso delle mascherine, con quali tipi di banchi, ecc. Tutte questioni assai importanti, per la salute di tutti e non solo di coloro che frequentano le scuole. Ma certo non meno importanti sono gli aspetti più sostanziali della didattica, sui quali alcuni interventi sono stati decisamente in chiave innovativa e di rottura. Significativa al riguardo è per esempio la testimonianza di Roberto Vecchioni con le sue Lezioni di volo e di atterraggio, Einaudi 2020. Vorrei però soffermarmi sul provocatorio articolo di Massimo Recalcati su Repubblica dello scorso 19 gennaio, del quale riporto qualche frase: «Non è il Covid un tremendo magistero per i nostri figli, di gran lunga superiore a quello che può essere impartito loro nelle aule delle scuole? Questo tempo non è affatto tempo perso, né tempo di arresto dell’attività didattica, ma un tempo in cui la scuola continua a operare sebbene in forma nuova. Davvero i nostri figli non stanno imparando nulla da questa lezione? In gioco non è solo la salvaguardia dell’attività didattica dalla presenza ostile del Covid, ma l’implicazione di questo trauma collettivo nella didattica.»
Viene qui da pensare all’ambiente storico-culturale in cui ormai gran parte dei cittadini italiani, e anche di altri paesi a noi vicini, sono cresciuti e vissuti. Negli ultimi 75 anni della nostra storia, dopo la seconda guerra mondiale, abbiamo saputo tenere lontano o esportare le catastrofi epocali che hanno accompagnato la storia dell’umanità. Ci siamo abituati a pensare in termini di progresso, anche se a volte difficile, a volte apparente o con importanti battute di arresto. Abbiamo sviluppato un’attitudine a cercare di “risolvere i problemi” per proseguire la strada del nostro progresso. Questa attitudine ha portato alcuni di noi addirittura a negare, o fortemente ridimensionare, problemi chiaramente epocali: si pensi all’emergenza climatica o alla stessa attuale pandemia. Altri problemi, come l’emergenza umanitaria legata all’immigrazione, sembrano ad alcuni poter essere affrontati con relativa semplicità, per esempio con la costruzione di muri reali o ideali ai nostri confini. Forse anche le nostre visioni della scuola e delle realtà giovanili trascurate risentono di questa attitudine alla banalizzazione, con la ricerca di soluzioni “per tornare presto alla normalità”. Insomma, ci ricordava Pasolini che «i problemi non si risolvono, si vivono», ma ciò sembra essere rimasto sulla carta.
Le parole di Recalcati mi hanno ricordato quel singolare inno alla vita, scritto durante la seconda guerra mondiale, che è Il Mito di Sisifo di Albert Camus. Sisifo, ci narra l’Odissea, è condannato dall’ira degli dei a portare verso la sommità di una montagna un macigno. Arrivato in prossimità della cima, il macigno gli sfugge e ricade in basso. Sisifo deve dunque ricominciare da capo la sua enorme fatica, e il suo castigo è per l’eternità. Nel finale della sua rilettura del mito, Camus si sofferma a osservare Sisifo nel momento in cui, quasi arrivato in cima, il macigno ricade verso il basso: «Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna formano da soli un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
Il giovane Newton riuscì a vedere, con gli stessi occhi di Sisifo, i bagliori dei libri di Cartesio e di Galileo, il macigno che aveva con sé, da portare in cima alla montagna durante un lockdown di cui non poteva conoscere la fine. Speriamo che la difficile esperienza di questi tempi ci aiuti a vivere l’attuale periodo anche come grande opportunità, e dunque a immaginare Sisifo felice. Ne abbiamo veramente bisogno.
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