Voleva essere «l’architrave a livello mondiale dei movimenti populisti di tutto il mondo», Steve Bannon («Now he wants to destroy Europe’s» – N.Y.T.); creare «una rete di partiti di destra ed estrema destra in Europa (“The Movement”) tra cui spiccano Lega e Fratelli d’Italia» (Wikipedia, ma non esageriamo: nel mondo c’è gente più importante, e più pericolosa, in quel campo). Già arrestato in agosto per “cospirazione a scopo di frode postale” e riciclaggio in relazione alla campagna “we build the wall” (una raccolta di fondi per la costruzione del muro col Messico), nel novembre scorso ebbe timidamente ad esprimere su Twitter la personale opinione che Anthony Fauci (il virologo) e Christopher Wray (direttore dell’FBI) andassero “decapitati”, guadagnandosi il bando perenne dal social (senza polemiche, stavolta). Adesso, fra i 143 provvedimenti di grazia firmati da Trump nell’ultimo giorno da Presidente c’è anche quello per il vecchio amico e artefice della sua elezione, poi entrato in urto con lui come quasi tutti. Non sarà processato, quindi, il balzano “stratega” dell’universo sovranista, ma molti suoi seguaci di un tempo non sembrano volerlo più neanche sentir tossire. Amarissima uscita di scena, per un uomo passato da Mefistofele del populismo internazionale a “solito pirla” in un battito di ciglia del tempo.
Un sospetto di sopravvalutazione del personaggio e del suo ruolo sembrò confermato, due anni fa, da uno strano documentario, “The brink – Sull’orlo dell’abisso”, prodotto da una sua ex collaboratrice quando la sinistra fama del personaggio era al suo apice e il corteo degli adepti sembrava più affollato di quello degli spaventati. Presentato e uscito “fra vidiri e svidiri”, direbbe Montalbano, nel maggio di due anni fa e destinato alla pubblicazione nella collana “Feltrinelli Real Cinema”, in realtà non si è praticamente mai visto in libreria. Un po’ la pandemia, un po’ l’esplodere di Netflix e il ripiegare di tanti di noi verso altri tipi di prodotto, un po’ la ridotta fiducia (fondata) nelle sue possibilità commerciali e nella durata del fenomeno Bannon, hanno fatto sì che l’unica sua edizione disponibile oggi su Amazon sia quella originale, distribuita dall’americana “Magnolia” (che film, quello da cui questa casa prende il nome!). Eppure, adesso che Donald Trump ha preso il volo e la parabola del suo amico-nemico scivola in volgarissime questioni di appropriazioni indebite, non sarebbe male rivedere quel documentario – peraltro solo parzialmente riuscito – su questo americano stropicciato e sovrappeso, dai bioritmi improponibili, idratato a Red Bull, inesausto propagandista di quel neofascismo mondiale detto populismo, o sovranismo, che ha ancora fin troppi adepti anche senza di lui. Magari per chiedersi, come noi allora, ma davvero è tutto qui?
Chi sarebbe dunque S. B. alla luce di questo documentario, oltre il vortice di iniziative e di fallimenti, di porte aperte e di porte in faccia? Il temuto agente di una strategia volta ad influenzare con successo le elezioni di mezzo mondo e scardinare le democrazie occidentali, come temevano in molti dopo “Cambridge Analytica”? O la trascurabile, pittoresca pedina di un gioco che lo trascende, anzi probabilmente lo ignora, come sospettavano altri? Il burattinaio dell’internazionale populista, il tessitore della malora europea, l’anima nera di Trump? O piuttosto il triste narciso che emerge da “The brink”: un ex molte cose, giunto alla ribalta della politica come stratega della vittoriosa campagna elettorale di Trump, da allora impegnato a favorire l’azione di abili, pericolosi e mediocrissimi politicanti di successo in giro per il mondo, che intestandosi questa reticolare azione di supporto e collegamento persegue in fondo la promozione di sé stesso?
“The brink” è il film di due donne. La prima è Marie Thérèse Guirgis, che lo ha prodotto e che di B. fu collaboratrice negli anni in cui nel vortice di iniziative commerciali dell’ex banchiere di J.P.Morgan rientrò l’acquisizione della Wellspring, una piccola società indipendente di distribuzione cinematografica. La seconda è Alison Klayman che lo ha diretto. «Vedevo Steve dipinto ovunque in modi che pensavo fossero pericolosi e scorretti» – è Guirgis che parla – «e questo mi metteva a disagio, perché avevo di lui un’altra esperienza. Veniva rappresentato come un genio del male, il cervello di Trump, una specie di Darth Vader. Gli era stato dato troppo credito e lui sfruttava l’immagine che i media gli avevano cucito addosso come mezzo per mantenere e accrescere il suo potere, anche dopo aver lasciato la Casa Bianca. Steve non è mai cambiato molto nel modo di operare: è sempre stato un venditore, è un banchiere d’investimento, è sempre stato guidato dall’interesse personale. Credevo che se avessimo potuto seguirlo per un lungo periodo di tempo avremmo potuto demitizzarlo e il nostro lavoro sarebbe stato molto prezioso».
Il metodo seguito per realizzare questo progetto, che la regista chiama “cinema verità”, è sostanzialmente quello di un reportage giornalistico: minuzioso, un po’ caotico, discretamente impersonale. Come preoccupata di non essere invadente, Klayman si dispone a cogliere, tallonando il nostro, eventuali momenti di confidenza della cui spontaneità è però lecito dubitare. In sostanza, “The brink” è l’equivalente di una biografia autorizzata che cerca autonomia nel montaggio. Seguiamo B. per mesi da una città all’altra, da un albergo a un congresso a un incontro, da un treno a un aereo a un vaporetto, di giorno e di notte, intervistando gente diversamente autorevole. (C’è anche un incontro a Venezia con Giorgia Meloni e un giornalista del Guardian che pone domande sgradite sul retroterra fascista del suo movimento). Ne esce una congerie di parole e di immagini, dati e informazioni, battute e chiacchiere, anche quotidiane e banali – che a volte hanno l’aspetto di “tranche de vie” riprese da una telecamera inerte – da cui è assente qualunque interpretazione, linea di indagine o indicazione di percorso per chi assiste frastornato a questo tourbillon, trovandosi in mano quello che per lo più sa già e poco altro.
Partendo dalla convinzione che non ci sia niente da capire al di là del fatto che il populismo è pericoloso e fascista; niente da mostrare se non il semplice svolgimento di queste relazioni politiche fra i suoi rappresentanti politici e i commentatori; niente da ascoltare se non B. che parla di sé stesso e altri che parlano di lui, si concede a colui che dovrebbe essere centro e oggetto dell’indagine di divenirne il regista effettivo. «Gli segnalai che non ero interessata a fare un lavoro di propaganda o un film alla Michael Moore. Piuttosto desideravo che una regista lo seguisse per un lungo periodo di tempo e che avesse anche un totale controllo creativo.» (Marie Thérèse Guirgis). Ecco, appunto.
Se B. è questo (come sembra confermare il seguito della storia), cioè un americano matto e fascistoide con tanto tempo da perdere e tanti soldi da spendere, ci siamo. Ma se non fosse proprio così, se volessimo sapere di più sulla campagna elettorale di Trump e sull’uso fatto dei “Big Data”; sul perché e sui retroscena della cacciata dalla Casa Bianca dopo la vittoria; su cosa facesse B. a J.P.Morgan; sulle forme e sulla qualità di questo patronage prestato ai leader sovranisti europei e sudamericani; sui rapporti con google o facebook; su questo e altro del backstage di questa frenetica – nell’apparente indolenza – attività del nostro, non bisogna evidentemente chiedere a lui di indirizzarci. Ci vuole qualcuno/a che senza rinunciare al “controllo creativo”, non si accontenti di quello. Ci vuole, ci sarebbe voluto, appunto un Michael Moore. Ma forse la fine triste della partita giustifica a posteriori il disinteresse del versatile documentarista americano, che quello stesso anno presentava a Roma il ben più robusto “Fahrenheit 11/9” sull’elezione di Trump. Rimangono, di quel tempo che sembra così lontano, le foto dei trumpiani di casa nostra, felici e orgogliosi, al fianco dell’amico americano. Oggi più stropicciato e meno sovrappeso (la galera produce questi effetti), certo dimenticato.
Fine della storia? Di questa sembra proprio di sì. Di quella che spiega gli ottanta e passa milioni di voti di Trump due mesi fa, no di certo.