Malgrado la campagna vaccinale in atto la pandemia non rallenta. Il numero elevato di contagi e ricoveri (questi ultimi in aumento anche tra gli under 65) ha determinato la necessità di adottare nuovamente misure restrittive in quasi tutta la penisola. Cresce purtroppo anche l’insofferenza della popolazione, che, tra incertezze economiche e limitazioni della libertà personale, fa sempre più fatica a rispettare le misure messe in campo per contenere il diffondersi del coronavirus e delle sue varianti. Già, perché il fattore varianti è purtroppo decisivo nella partita che stiamo giocando contro il virus. Il professor Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di Malattie infettive e primario di Malattie Infettive al Policlinico Tor Vergata di Roma, ci ha aiutato a fare chiarezza sull’attuale quadro pandemico, uno scenario complesso in cui occorre muoversi con molta cautela.
In questa fase della pandemia si registra un aumento di ricoveri in fasce di popolazione più “giovane” (40-60 anni). A cosa è dovuto?
È difficile dare una risposta certa. È però probabile che il fenomeno sia dovuto anche alle varianti del virus. C’è da fare una precisazione: quella dei giovani è stata sin da subito la fascia di popolazione più interessata dalla pandemia, non si sta registrando un aumento dei casi. La novità a cui stiamo assistendo è l’aumento di persone di 40 anni o addirittura meno che vengono ricoverate e arrivano persino alla rianimazione. Si può spiegare il fenomeno con la capacità da parte delle nuove varianti virali (soprattutto della variante inglese che attualmente è predominante in Italia, ma non solo di quella) di provocare forme leggermente più severe. Attenzione però: il fatto che le varianti diano probabilmente quadri clinici più severi non vuol dire che siano più mortali.
Prof. Andreoni, ci può spiegare meglio il meccanismo che porta alla nascita di nuove varianti di un virus?
È un fatto assolutamente naturale che si generino varianti di un virus. In particolare, SARS-CoV-2 fa parte di una tipologia di virus (quelli a RNA) che ha una grande capacità mutazionale. La propagazione di questi microrganismi implica che le sue “copie” presentino spesso degli errori di replicazione. In questo modo, si generano nuovi virus. Una volta generati, la loro sopravvivenza e il loro successo dipendono dalle loro caratteristiche: per esempio la variante inglese ha una grande capacità replicativa, quindi è una variante in grado di prendere piede, altre mutazioni portano invece a varianti che hanno bassa capacità replicativa e bassa capacità di trasmissione, quindi tendono a scomparire. Nel corso della pandemia sono state molte le varianti, ma fino ad oggi non erano oggetto di particolare interesse o di discussione mediatica per due motivi: non c’erano vaccini, quindi non si poneva il problema della resistenza vaccinale, e non esistevano strategie terapeutiche, mentre oggi abbiamo gli anticorpi monoclonali ed è importante capire se ci sono varianti virali contro le quali non sono efficaci. Oggi è necessario monitorare la comparsa di varianti, sia per comprendere gli andamenti dell’epidemia – come riprese brusche, manifestazioni gravi in fasce della popolazione prima generalmente interessate da forme più lievi – sia perché dobbiamo impedire che nascano virus resistenti ai vaccini, altrimenti le strategie che stiamo mettendo in atto potrebbero diventare rapidamente infruttuose.
La presenza di varianti virali influisce sull’efficacia dei vaccini o potrebbe farlo un domani?
Oggi come oggi poco, la variante brasiliana e in parte quella sudafricana del COVID-19 sono un pochino più resistenti, ma i vaccini sono ancora efficaci contro di esse. Certo la possibilità che si crei una variante resistente ai vaccini non è assolutamente un’ipotesi peregrina. Se da un lato disponiamo di tecnologie che ci consentirebbero di ricostruire abbastanza facilmente un nuovo vaccino, dall’altro potrebbe essere un disastro, perché vorrebbe dire che quanto fatto fino ad oggi verrebbe meno e dovremmo ricominciare da capo. Per questo motivo è fondamentale vaccinare il più velocemente possibile e contenere la circolazione del virus, in modo da limitare la possibilità di emergenza di ulteriori varianti.
Professore, giudica opportuno mettere in campo misure più restrittive per consentire l’attuazione del Piano vaccinale?
Purtroppo sì. Questo è un momento di criticità perché aumentano i casi e si crea una forte congestione negli ospedali. Già adesso in alcune Regioni italiane le strutture ospedaliere sono molto sovraccariche. Inoltre bisogna tenere presente che fare una vaccinazione di massa mentre c’è una grande circolazione del virus non va bene: per quanto si possa cercare di far rispettare il distanziamento, inevitabilmente si creano agglomerati di persone. In questo momento, sfortunatamente, bisogna porre misure restrittive molto severe.
Dopo aver immunizzato il personale sanitario, si è deciso di vaccinare la popolazione partendo dagli anziani e dagli individui più fragili. Perché non si è invece deciso di vaccinare per prime le fasce di popolazione più giovane, tendenzialmente più attiva e quindi esposta a contagio?
È una scelta strategica. Per fermare l’epidemia in tempi rapidi, la strategia dovrebbe consistere nell’immunizzare subito gli individui che più facilmente contraggono il virus facendolo circolare. Quindi bisognerebbe partire dai giovani e andare a salire. Purtroppo il numero di vaccini non è sufficiente a bloccare l’epidemia e bisogna adottare una strategia diversa, ovvero quella di allentare la pressione degli ospedali. Siamo partiti quindi dai più fragili,
perché la maggior parte delle persone che arriva in ospedale è ancora oggi, malgrado le variazioni recentemente dovute alle varianti, composta da persone anziane e di malati gravi. Pazienti che più spesso necessitano di terapia intensiva e occupano i letti per lunghi periodi.
Non è la scelta ottimale ma è la scelta che serve, e man mano che arrivano i vaccini anche le categorie da vaccinare si ampliano. Se finalmente si arrivasse a fare 700mila vaccinazioni al giorno a quel punto bisognerebbe semplificare al massimo e prendere in considerazione solo le classi d’età senza ulteriori sottocategorie.
Lei ritiene che dovremo abituarci a convivere anche in futuro con il virus e le campagne di vaccinazione?
Questo virus non ha nessun motivo per scomparire, ormai si è adattato all’essere umano e quindi in futuro diverrà uno dei tanti agenti virali che possono determinare polmonite e via dicendo. In qualche modo ci abitueremo alla presenza di questo virus. Ad oggi, il coronavirus è pericoloso perché è nuovo per il nostro sistema immunitario: il problema dei nuovi virus, quelli con i quali l’essere umano viene in contatto per la prima volta nella sua storia, è un problema enorme perché non abbiamo sviluppato l’immunità di specie contro di loro. Nel caso di microrganismi già noti, se pure il singolo non ha mai incontrato un determinato agente patogeno virale, ha una difesa, per quanto parziale, data dal fatto che la specie umana lo ha già affrontato.
La specie umana deve ancora adattarsi al coronavirus. In qualche modo saremo progressivamente più forti e acquisiremo l’immunità vaccinandoci o ammalandoci. Detto questo, è possibile che dovremo pensare a una vaccinazione una volta all’anno o quando sarà opportuno ripeterla. Non sappiamo ancora quanto tempo duri l’immunità vaccinale. Sono tutte cose che impareremo a conoscere.