Da molti anni, gli europei della NATO promettono solennemente di dedicare il 2% del proprio Prodotto Interno Lordo alle spese per la difesa.
Propositi guerrafondai? No, lo sforzo di cercare di non apparire insensibili alle recriminazioni dell’alleato statunitense: «Vi abbiamo generosamente assistiti con il Piano Marshall, abbiamo mantenuto una presenza militare in Europa anche in tempo di pace, abbiamo sviluppato strategie nucleari complesse per evitare una “separazione strategica” (“de-coupling”) tra le due sponde dell’Oceano, siamo diventati i “poliziotti del mondo” anche nel vostro interesse …. ed ora, che abbiamo livelli di benessere e competitività economica tendenzialmente convergenti, pretendereste di continuare a “scroccare” l’assicurazione di una difesa e sicurezza comune quasi gratis? Tanto paga Pantalone ….».
Questa lamentazione USA – in gergo definita “burden sharing” – non è stata inventata da Donald Trump. Essa vanta invece una consolidata declinazione “by-partisan”, sostanzialmente fattasi più esplicita da quando, dalla sospensione della convertibilità del dollaro nell’agosto del 1971, Washington ha preso le mosse per ammonire pubblicamente l’Europa sulle conseguenze di una mancata “condivisione di ruoli, rischi e responsabilità” nello scenario internazionale.
Negli algoritmi della pianificazione della difesa in ambito NATO, questo parametro è diventato sempre più un “totem”: gli Stati Uniti spendono tradizionalmente il 4-5% del loro Prodotto Interno Lordo per le spese per la Difesa; perché mai gli europei non possono porsi l’obiettivo di arrivare ad una percentuale, che sarebbe grosso modo la metà di quella di Washington ma anche più o meno il doppio della media dei partner del Vecchio Continente?
Difficile opporsi a questo ragionamento. Difatti, sia pure con un linguaggio ricco di sfumature e sottigliezze, gli europei da lungo tempo si prestano a confermare periodicamente quest’impegno. Salvo trovare poi regolarmente giustificazioni per il mancato adempimento e reiterare, quindi, … l’ennesima “promessa da marinaio”!
Pensate che voglia biasimare l’Europa? Solo in parte. E fondamentalmente per motivi diversi da quelli della mera contabilità di bilancio.
Sono convinto infatti che, se paradossalmente gli oltre venti Alleati europei della NATO investissero dall’oggi al domani il 2% del loro PIL per aumentare gli acquisti nazionali di sistemi d’armamento, ci troveremmo
probabilmente di fronte ad una crescita esponenziale di prodotti tra loro simili e concorrenziali ma non necessariamente coordinati ed integrabili (per esempio, una ventina di linee di carri armati con diversità in capacità d’impiego, pezzi di ricambio, manutenzione ed assistenza logistica). Un enorme “input” con un deludente risultato di “output”, anzi controproducente perché gli sprechi non piacciono a nessuno.
E allora? Invece di improbabili “target” nazionali, se vogliamo andare verso un ammodernamento del rapporto transatlantico nel segno di una più equa distribuzione degli oneri per la difesa, bisogna che si arrivi a dare adeguata visibilità alla dimensione collettiva europea.
Non può allora non entrare in gioco l’Unione Europea. Non come velleitaria alternativa alla NATO ma come naturale espressione, sul versante politico e di sicurezza, di un processo d’integrazione sovranazionale che ritrova oltre Oceano sia una antica parentela (i Padri Pellegrini della Mayflower scappavano dalle guerre di religione in Europa) sia un modello istituzionale di riferimento (gli Stati Uniti d’Europa). Ma, soprattutto, una comune fede nel multilateralismo, a garanzia di valori ed interessi comuni. Non a caso, Washington fu munifica nel soccorso dell’Europa dilaniata dalla Seconda Guerra Mondiale, ponendo però come condizione una gestione coordinata e a dimensione continentale del processo di ricostruzione.
Torniamo quindi a quello spirito. In ambito atlantico, allora, un “burden sharing” per corrispondere alle legittime aspettative statunitensi, non affidato però agli sforzi nazionali dei singoli Alleati europei ma più efficacemente promosso dalle istanze comunitarie (PESC/PSDC, Agenzia Europea di Difesa, Programma Horizon ecc.). Sospetto che, se così fosse, basterebbe probabilmente molto meno di “input” fiscale addizionale degli Europei per fornire molto più “output” in termini di capacità aggiornate ed interoperabili, con accresciuti vantaggi per la sicurezza e difesa comune.
Ma questo implica anche una trasformazione niente affatto trascurabile delle relazioni all’interno del Consiglio Atlantico, da foro ove tutti gli Alleati sono uguali, ma, alla resa dei conti, “uno rimane più eguale degli altri”, ad una più sofisticata articolazione ove il pilastro europeo agisca politicamente in maniera sempre più coordinata, se non addirittura unitaria (il c.d. “EU Caucus within NATO”). Non era Kissinger che chiedeva un numero di telefono per parlare con l’Europa? Una voce sola della UE anche in ambito NATO sarebbe quello che serve.