Siamo la famiglia dei cresciuti! – mia madre mi racconta che così, ridendo, diceva mio nonno riferendosi alla nostra famiglia. “Cresciuto” in dialetto napoletano si riferisce ai figli adottivi, non generati biologicamente dai genitori, dunque, ma appunto, da questi cresciuti.
Questo per via delle storie che lui e mia nonna prima – e altri membri della famiglia poi – hanno vissuto. I ragionamenti intorno a che cosa significa famiglia, quindi, sono cominciati molto presto per me, e a questi si sono uniti, più tardi, le riflessioni sul tema dell’identità.
Quando ho cominciato a viaggiare attraverso l’Italia e l’Europa, prima per studio e poi per lavoro, imparando a chiamare casa molti posti diversi, ho cominciato a percepire la mia identità come qualcosa di mobile e sfaccettato: la donna del sud, ma anche quella della grande città, l’Italiana, l’Europea. E questo se ci concentriamo solo sul tema delle radici.
Dunque, quando Elisabeth e Eve hanno accettato di raccontarmi la loro storia e la loro esperienza di mamma e figlia con diverso colore della pelle, e con un passato e un presente che si snodano su tre continenti, ne sono stata subito felice.
Mi piacerebbe così inaugurare un ciclo di storie, per interrogarmi con i lettori sul concetto di identità e appartenenza, e capire come questi influenzano la nostra vita, le nostre scelte, e – plasmando chi noi siamo – plasmano la realtà in cui viviamo in un perenne mutuo scambio. Di più: quello che mi piacerebbe fare, in questo viaggio, sarebbe comprendere un po’ di più l’Italia di oggi, uscendo fuori dalla mia bolla e dal racconto tradizionale che abbiamo di noi stessi come società, in base al quale esprimiamo opinioni e compiamo scelte politiche.
Di seguito, parti della mia conversazione con loro, almeno fino a che un problema tecnico non ha rovinato l’audio della registrazione.
(Qui purtroppo la tecnologia si mette di traverso. L’audio diventa disturbato e – ahimè – non più fruibile agli ascoltatori, che dovranno accontentarsi della mia testimonianza.)
La conversazione prosegue su quanto alcune identità possano pesare e costringerci a vivere eternamente sotto una lente d’ingrandimento. Quella che Elisabeth definisce “la biografia importante con la quale abbiamo caricato i nostri figli, sebbene non ne avessimo l’intenzione” si concretizza nelle parole di Eve: Io potrei tornare in Italia – dice – ma se una parte di me lo vuole fare, l’altra è stanca di dover essere sempre il buon esempio.
Quello che esprime, cioè, è il disagio delle persone che non rientrano in una presunta norma sociale, di dover essere all’altezza di certi standard. In maniera e con sfumature diverse, le donne, le persone non bianche, quelle che appartengono alla comunità LGBTIQ o che di queste sono discendenti, gli immigrati, le persone con disabilità, e chi più ne ha più ne metta – subiscono quotidianamente una pressione che li spinge a non poter sbagliare, di non poter fallire, perché quel fallimento e quello sbaglio saranno immediatamente ricondotti alla caratteristica del loro essere con la quale il mondo li identifica.
Semplificando: se il pregiudizio verso le persone di colore è che non riescano a raggiungere gli stessi traguardi dei loro pari bianchi, la pressione sul ragazzo o sulla ragazza di colore sarà di dover costantemente dimostrare l’opposto, non potendo mai essere meno che eccellente, non potendo mai avere un momento di indulgenza verso sé stessi, come invece è concesso a tutti gli altri.
E come si conciliano queste identità con l’appartenenza al nucleo familiare?
Ciascuna dalla propria prospettiva, le mie ospiti mi raccontano l’esperienza della creazione del nucleo familiare attraverso l’adozione, vissuta come un altro modo di essere genitori e figli, non già come un modo di esserlo a metà. Benché entrambe riconoscano che non esiste una formula magica per evitare dolori che potrebbero derivare dalla riflessione sulla propria origine, e da un eventuale senso di abbandono, entrambe concordano che – per loro – la chiave è stata il riconoscimento e la celebrazione della propria storia come qualcosa di unico e prezioso.
Così la mamma biologica viene spogliata di mistero ambiguità, diventando semplicemente “la prima mamma”; così Eve ed Elisabeth viaggiano insieme alla scoperta tanto dell’Etiopia quanto degli Stati Uniti, imparando a conoscere ed abbracciare l’eredità che da questi luoghi deriva loro.
E per il futuro? – chiedo loro in chiusura.
Elisabeth vuole aiutare questa nuova generazione di italiani senza cittadinanza ad esprimere il proprio potenziale, impegnandosi attivamente nell’educazione e nella sensibilizzazione. L’Italia è lenta ma ci arriva – mi dice Eve, con un bellissimo sorriso: giovane, fiducioso, audace, pieno di futuro e di sole nonostante a Londra ci sia brutto tempo.
Episodio #1