ALLE ORIGINI DI ROMA
La leggenda della nascita della Città Eterna
La recente apertura al pubblico del Mausoleo di Augusto in Campo Marzio a Roma, al termine dei lunghi e mirabili restauri che hanno interessato il monumento, ha riacceso i riflettori sull’antica Roma, una città che, al tempo di Augusto (27 a.C.-14 d.C.), aveva un milione di abitanti ed era la capitale di un impero che andava dalle coste europee e nordafricane dell’Oceano Atlantico al Caucaso e all’Asia Occidentale, e dai confini renano e danubiano alle sabbie del Sahara.
Per i reggitori di quell’impero, la politica estera aveva il valore e il significato di una missione storica diretta a proteggere tutte le genti e ad assicurare loro la pace e la giustizia. Essi erano infatti convinti che le conquiste territoriali già compiute non fossero conclusive, ma tappe significative di una strategia a lungo termine, attraverso la quale Roma avrebbe assunto il controllo di territorio sempre più esteso e sarebbe divenuta capitale del mondo e patria comune di tutti i popoli della Terra.
Quella mentalità rispecchiava l’intreccio dell’ideologia dei rapporti tra Roma e i popoli che questa aveva assoggettato con il concetto di humanitas, e aveva un corollario: i romani, poiché avevano il compito di civilizzare l’intera umanità, per farne un’unica gens, una sola nazione, avevano il diritto-dovere di governare tutti i popoli della Terra.
La parola humanitas esprimeva un concetto poliforme (voleva dire cultura letteraria, virtù di umanità e stato di civiltà insieme), il cui nòcciolo era che gli individui sono esseri umani se e in quanto non siano né barbari, né inumani, né incolti, secondo il messaggio contenuto in un famoso passo di una commedia di Publio Terenzio Afro: Homo sum, humani nihil a me alienum puto, “Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano”. Equivaleva al termine greco philanthropia, che individuava un sentimento e un conseguente atteggiamento di benevolenza alla base di un comportamento diretto a realizzare il benessere altrui.
Il concetto di humanitas s’intrecciò all’ideologia dell’imperialismo romano in seguito alla rielaborazione fattane da una cerchia di intellettuali — il Circolo degli Scipioni —, al tempo di Publio Cornelio Scipione Emiliano (185-129 a.C.), il distruttore di Cartagine e Numanzia.
L’inaugurazione dei lavori di restauro del Mausoleo di Augusto cade nell’anno del 2774° anniversario della fondazione di Roma (21 aprile 753 a.C.), che, per una felice coincidenza, ricorrerà il giorno successivo alla pubblicazione del quarto aggiornamento del giornale online “Tutti Europa ventitrenta”. Vogliamo trarre pretesto da questa concomitanza per ricordare la leggenda delle origini di Roma.
Partiamo da Lavinium, la città fondata poco a nord della foce del Tevere dal principe troiano Enea il Dàrdano al termine del suo lungo peregrinare per mare dopo la caduta di Troia, in cerca di una nuova patria. Enea le diede il nome della sua seconda moglie, Lavinia, La prima moglie di Enea, Creusa, era scomparsa nell’incendio di Troia due anni prima.
Il secondo re di Lavinium, figlio e successore di Enea, fu suo figlio Iulo, o Ascanio, nato dal matrimonio con Creusa. Dopo alcuni anni di regno, Iulo abdicò a favore del fratellastro Silvio, figlio di Enea e Lavinia; e fondò un’altra città nell’area dei Castelli Romani: Alba Longa (Castel Gandolfo?).
Iulo e Silvio furono i primi re di una dinastia di sedici.
Il sedicesimo sovrano di Alba fu Numitore, figlio di re Proca e fratello di Amulio. Sua figlia Rea Silvia, dopo l’usurpazione del trono da parte di Amulio, fu costretta dallo zio a diventare una sacerdotessa di Vesta, pertanto una Vergine Vestale (nel frattempo era stato profetizzato che Rea Silvia avrebbe avuto un figlio, che avrebbe privato Amulio del potere; il sacerdozio avrebbe imposto a Rea Silvia di rimanere casta e questo avrebbe impedito che la profezia si avverasse). Ma Rea Silvia fu messa incinta dal dio Marte, che le era apparso sotto forma di un fallo che si librava nell’aria; e partorì due gemelli: Remo e Romolo. Per salvare i neonati da Amulio, la madre li mise in una cesta e li abbandonò alla corrente del Tevere.
Il Tevere, straripando, depose la cesta sulla riva, in un luogo discosto. I gemelli furono trovati da un pastore di nome Faustolo. La moglie di Faustolo era Acca Larenzia e aveva un passato di prostituta (da notare che, in Latino, lupa vuol dire prostituta; ne deriva il termine lupanaris, che significa bordello). Faustolo e Acca Larenzia accolsero i gemellini, li chiamarono Romolo e Remo, e li allevarono come se fossero stati loro figli.
Fattisi grandi, Remo e Romolo ristabilirono Numitore sul trono e ottennero in premio di poter fondare una città circa 30 chilometri a nord-ovest di Alba Longa, all’estremo limite del territorio di questa, sulla sponda meridionale del Tevere, sulle alture prospicienti l’Isola Tiberina.
Su quei colli, dispersi fra i boschi e le rupi, divisi da stagni e paludi, erano situati diversi villaggi di capanne di paglia e fango, sovrastati da un tempio di legno. Tre sorgevano sul colle Palatino ed erano quelli del Palatium, del Cermalo e della Velia. Altri tre erano situati sull’Esquilino. Erano il Fagutal, “Monte dei faggi”; il Cispio, e l’Oppio. Il settimo si trovava al Celio, detto anche Querquetal, “Monte delle querce”. I sette villaggi citati erano abitati dai ramnenses, una tribù di latini; e, nell’insieme, formavano il Septimontium. I ramnenses del Palatino, tutti quanti, si chiamavano velienses; quelli dell’Esquilino, querquetulani.
Ulteriori villaggi sorgevano sul Quirinale. Anch’essi erano abitati da ramnenses. In quel caso, però, i ramnenses si chiamavano munienses. Ulteriori villaggi sorgevano sul Viminale, “Colle dei salici”; e sull’Aventino. I villaggi del Viminale erano abitati dai titienses, una tribù sabina, originaria della città di Cures e capeggiata da Tito Tazio; quelli dell’Aventino, dai luceres, una tribù nata dal mescolamento di gruppi di latini e di etruschi.
I latini e i sabini della zona si contendevano un settimo colle: il più alto, intermedio fra il Palatino e il Quirinale, e chiamato Campidoglio. Per non scontentare nessuno, il Campidoglio non toccò ad alcun contendente, ma divenne un’area sacra.
Tra il Campidoglio, il Palatino e l’Aventino, vi era una pianura in parte paludosa, che finiva al Tevere, in un punto in cui il fiume era attraversabile toccandone il fondo, senza doversi mantenere a galla. In corrispondenza di quel guado s’incrociavano un itinerario commerciale, attraverso il quale era veicolato il sale, proveniente da un’area situata alla foce, e un tratturo utilizzato per la transumanza. Nella pianura si teneva un mercato, che richiamava molta gente, anche da fuori.
Il premio sarebbe spettato a chi dei due gemelli avesse raccolto gli auspici più favorevoli, traendoli dall’interpretazione del volo degli uccelli (si riteneva che la volontà degli dèi si esprimesse anche e principalmente in questo modo; è degno di nota che il termine latino auspicium deriva da auspex, “colui che osserva il volo degli uccelli”, composto da avis, ”uccello’”, e spècere, “guardare”). Le osservazioni di Remo furono condotte dall’Aventino, quelle di Romolo dal Palatino. I segni divini più favorevoli sortirono dalle prime. Pertanto Romolo fondò la sua città sul Palatino, un luogo che, in quanto dominava il guado all’Isola Tiberina, aveva un’importanza strategica, commerciale e militare insieme.
Remo sfidò il divieto di Romolo di varcare in armi il confine sacro della nascente città e fu ferito a morte dal fratello. Si giunse a questo perchè la città nuova avrebbe dovuto essere fondata per chiudere agli etruschi l’accesso alla pianura laziale, e il predestinato a fondarla era Remo. Romolo aveva lasciato che Remo sconfiggesse gli albani e avrebbe segretamente concordato con gli etruschi la sua eliminazione fisica. Inoltre avrebbe imbrogliato nella gara per la raccolta degli auspici. Remo andò in collera, e, con la spada sguainata, oltrepassò il solco di fondazione. Un sicario etrusco lo uccise assestandogli un colpo di zappa in testa.
Romolo, poiché aveva ingannato il fratello e aveva fatto combutta con gli etruschi, ed era stato emarginato dagli altri latini, popolò la sua città con persone di varia origine e provenienza, gente di ogni risma, molte delle quali erano state bandite dalle loro comunità e avevano trovato asilo in un recinto sacro, ricavato dallo stesso Romolo nella sella tra le due cime del Campidoglio e chiamato asylum. Ma nessuna ragazza della zona voleva avere a che fare con Romolo e i suoi, perciò vi era una forte sproporzione tra uomini e donne. Per ristabilire l’equilibrio, gli abitanti di Roma Quadrata rapirono delle fanciulle titienses. Gli uomini della tribù reagirono, impugnando le armi, e scoppiò una guerra. Dopo alterne vicende, un accordo fra i contendenti mise fine alle ostilità. Fu deciso che, da quel momento in poi, gli abitanti di Roma Quadrata e i titienses sarebbero vissuti insieme, in pace e armonia, sotto il governo di due re, Romolo e Tito Tazio, i quali si sarebbero alternati nell’esercizio del potere. Per sugellare il patto sarebbe stato deciso di fondare una nuova città, di cui Roma Quadrata sarebbe stata la cittadella reale e il cuore simbolico. Il progetto sarebbe stato condiviso con i luceres. Di conseguenza, la nuova città occupò uno spazio maggiore della preesistente. L stessa si chiamava Rhome, o Ruma, ed è oggi nota come Roma Arcaica.
La fondazione di Roma Arcaica consistette nel compimento o nell’istituzione di una serie di atti cerimoniali e divieti sacrali in vari luoghi dei Sette Colli. Fra l’altro, nell’inaugurazione di sedi di culto (il Tempio di Vesta sul Palatino), riti, e istituzioni politiche, nel fondovalle tra il Palatino e il Campidoglio, attraversato dal fiume Velabro, e sull’Arx, una delle due cime del Campidoglio (l’altra cima era il Palatium). Pertanto cessò l’uso di seppellire i morti nella Valle del Velabro (solo i bambini continueranno ad esservi sepolti, vicino alle case), mentre una nuova necropoli di cremazione incominciò a formarsi sul Colle Esquilino. E’ importante notare che le istituzioni del Foro, a differenza di quelle che le avevano precedute nei Sette Colli, che erano state posizionate in luoghi domestici e presiedevano all’esercizio di funzioni domestiche, locali o distrettuali, erano invece collocate in luoghi pubblici, nel centro politico e sacro del città, e preposte all’esercizio di funzioni centrali.
Roma Arcaica era un esteso aggregato di capanne, che si estendeva su vari colli ed era attraversato da strade e vicoli in terra battuta. Vi si potevano distinguere tre blocchi, ognuno dei quali era occupato da una tribù ed era diviso in distretti. La trama edilizia occupava la sommità del Palatino (Roma Quadrata), ma si estendeva anche nella Valle del Velabro, dove, al posto del cimitero, era stato istituito il Foro, destinato a diventare il fulcro della vita sociale, economica e politico-istituzionale di Roma.
Per riassumere, l’unione politica di tre tribù, che appartenevano a diversi gruppi etnici (latini, etruschi, sabelli), mise fine a un lungo periodo di scontri etnici. Questo segnò la nascita di Roma Arcaica e di una nuova comunità politica: il popolo romano, inteso come un gruppo di individui che condividevano l’area geografica di residenza, la discendenza, la lingua, le tradizioni religiose e culturali, le istituzioni e le leggi, e formavano una comunità politica, governata da una monarchia. Questo spiega due caratteristiche che Roma ha sempre mantenuto nel corso della sua storia: il mescolamento dei suoi abitanti originari e la sua apertura verso l’esterno.
Quando Tito Tazio morì, Romolo rimase a regnare da solo. Quest’ultimo diede alla città una legge fondamentale, che fissava alcune regole di comportamento generali, astratte e coercitive, atte a disciplinare i rapporti fra la città-stato e i suoi cittadini, e fra gli stessi cittadini romani (costituzione romùlea). Nella costituzione di Romolo, il re era una carica elettiva, rappresentava il popolo romano davanti agli dèi e comandava il suo esercito in guerra. Nell’esercizio del potere egli era assistito e limitato da un insieme di tre corpi: ordine sacerdotale, consiglio regio, assemblea popolare. Quando cessava dalle funzioni, passava il testimone al suo successore, magari a un suo discendente, e usciva di scena. Se la successione non poteva essere immediata, due magistrati, reclutati tra le file della nobiltà equestre e chiamati consules, venivano nominati per governare nell’interregno, per la durata massima di un anno. I consules governavano ognuno per sei mesi. L’ordine sacerdotale era formato dal clero della religione tradizionale romana. Aveva le sue cariche maggiori nel rex sacrorum, nei flamines e nel pontifex maximus e abbracciava una serie di collegi: pontefici, àuguri, feziali, ecc.. Inoltre, per darsi una parvenza di sacralità, cioè per rendersi venerabile agli occhi dei suoi concittadini, ancora rozzi, attribuì a se stesso alcuni simboli del potere, inclusa una scorta di dodici littori (forse derivò il numero dodici dal fatto che erano dodici gli uccelli che gli avevano preannunciato l’ascesa al trono, oppure perché erano dodici gli uomini che vigilavano sulla sicurezza dei lucumoni etruschi). In seguito Romolo creò un’assemblea degli anziani, chiamata senatus e composta da ex-consoli. I membri del senatus erano chiamati collettivamente patres, “padri”, per l’alta dignità della loro carica; e appartenevano alle “100 gentes originarie”, vale a dire i 100 clan di ramnenses, titienses e luceres che avevano formato la popolazione della nascente città (dei titienses facevano parte per esempio le famiglie Curtia, Pompilia, Marcia, e Claudia).
Il nome collettivo dei patres era patriziato, da cui il sostantivo patrizio, che si addiceva anche ai famigliari dei singoli patres. I patrizi erano la classe dirigente della società romana, la quale, per il resto, cioè per la maggior parte, era formata dai proletarii, cioè dalla plebe (in seguito i proletarii avrebbero rappresentato uno dei ceti inferiori della plebe, sottordinato agli equites e preordinato agli humiles).
Dopo circa quarant’anni di regno, mentre stava passando in rassegna l’esercito nel Campo Marzio, Romolo fu avvolto da una nube che lo sottrasse alla vista dei sudditi e fu assunto in cielo. Così scomparve, all’improvviso e misteriosamente, il fondatore di Roma. Almeno, questo è ciò che raccontano i romani, i quali celebrano ogni anno la memoria del loro fondatore il 17 febbraio, onorandolo come un dio di nome di Quirino, durante la festa dei Quirinalia.
Riguardo alla morte di Romolo esiste però anche un’altra leggenda, secondo la quale il primo re di Roma sarebbe stato ucciso dai patres, adirati con lui perché, durante il suo regno, si era dimostrato poco rispettoso della loro volontà. I senatori avrebbero squartato il corpo del re, ne avrebbero nascosto i pezzi nelle pieghe della loro veste e poi li avrebbero sotterrati, salvo la testa. Essi si sarebbero divisi la testa fra loro e ne avrebbero mangiato i pezzi, secondo un rituale antichissimo, che riguardava la trasmissione della virtù dal morto ai vivi o l’esorcizzazione dello spirito del defunto.
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