L’Europa lancia una conferenza per interrogarsi sul proprio futuro. E lo fa aprendo ai cittadini, per cercare di evitare il cicalio delle chiacchiere tra iniziati (“Brussels speaks to Brussels”) e dei negoziati a porte chiuse (la dimensione intergovernativa che schiaccia quella comunitaria). È un processo innovativo, dall’esito tutt’altro che assicurato, sul quale aleggia una speranza ed una paura.
La speranza è che da questa riflessione emerga la volontà di andare avanti nel processo di integrazione europea, tenendo insieme coloro che si riconoscono in valori ed interessi comuni, premessa di una identità condivisa in «un’unione sempre più stretta».
La paura è che tale identità, se non corroborata da robuste iniezioni di vitalità politica e di innovazione programmatica, si vada a stagliare su un orizzonte mondiale sempre più incerto e cupo, che rischi di farci apparire come destinati all’irrilevanza ed al declino, «vasi di coccio tra vasi di ferro».
Di fronte a questo dilemma, la risposta che, da qualche tempo, viene generalmente proposta prende il nome di “autonomia strategica europea”. Un’Europa, cioè, che cerchi di essere padrona del proprio destino, senza dover, più o meno, mendicare a destra e manca, per garantire la propria sicurezza e il proprio benessere. Non è un dibattito nuovo, che si è spesso incrociato in passato con i temi del libero scambio, della globalizzazione, del multilateralismo e, soprattutto, del rapporto transatlantico. Non ha quindi destato sorpresa che, nell’autunno scorso, si sia accesa un’animata discussione sulla nozione e sui limiti dell’”autonomia strategica europea”, con Parigi che premeva sull’acceleratore e Berlino che si premurava di frenare.
Il ragionamento francese, maturato nel cupo quadriennio di Trump alla Casa Bianca ma anche coerente con una rilettura europeista del sovranismo gollista, insiste sul fatto che non è in ballo solo la difesa e la sicurezza del Continente ma anche la sostanziale capacità di reagire in proprio ad altre sfide contemporanee (dalla pandemia all’energia e al clima, dalle distorsioni commerciali alla rarefazione delle materie prime cruciali, dal dumping ambientale e sociale ai monopoli digitali ecc.), tendenze che si vanno consolidando nel mondo, a scapito dell’Europa.
La piccata risposta tedesca, affidata alla ministra della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali a Washington, rilanciava invece una interpretazione “da Guerra Fredda”, in base alla quale «bisogna finirla con le illusioni di un’autonomia strategica europea, perché non saremo in grado di rimpiazzare il ruolo cruciale dell’America come fornitore di sicurezza».
Si potrebbe ragionare a lungo pro e contro queste due tesi. Il punto chiave è però quello di cercare di rielaborare creativamente i granelli di verità riconoscibili in entrambe le posizioni.
Ci è riuscita, secondo me, la direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), Nathalie Tocci, con un recente saggio sulla rivista dell’Istituto, “L’autonomia strategica europea: che cos’è, perché ne abbiamo bisogno e come conseguirla” 11.
A suo avviso, si può – e si deve – perseguire questo irrobustimento della fibra dell’Unione Europea, a tre condizioni:
- che si parta dal rafforzamento dell’unità, della forza e della resilienza dell’Unione Europea, visto che il suo ruolo globale comincia a casa propria;
- che si punti a maggiori investimenti e ad assunzioni di responsabilità e rischi nel proprio vicinato;
- che, invece che indulgere al protezionismo ed alla chiusura, si contribuisca al governo multilaterale dell’interdipendenza, accompagnando inequivoche scelte di campo sui valori non negoziabili (democrazia, diritti umani, libertà d’opinione) con sforzi di apertura e dialogo, laddove si possano impostare azioni comuni anche con coloro da cui dissentiamo (per esempio pandemie, cambiamento climatico e per certi versi anche ripresa economica).
Questa linea, che si potrebbe definire dell’”autonomia strategica aperta”, postula un profilo più marcato da parte dell’Europa, non necessariamente per divergere dagli alleati di oltre Oceano, ma proprio per collaborare più efficacemente nelle tante aree di interessi convergenti e per gestire più costruttivamente eventuali, occasionali dissonanze.
Molti i temi ai quali Nathalie Tocci applica questa metodologia, non solo le note questioni politico-militari e geo-strategiche (maggior “burden sharing” nella NATO e più “leadership” nel così detto ”anello di fuoco” che collega Balcani Occidentali, Turchia, Europa dell’Est, Mediterraneo e Medio Oriente, lambendo gran parte dell’Africa sub-sahariana). La stessa logica di condivisione e/o concorrenza leale si può infatti estendere anche ad altre aree. A partire da clima, ambiente ed energia per arrivare allo spazio ed al digitale, dalla gestione delle migrazioni alla tutela degli investimenti. Speriamo ora anche al tema spinoso della tassazione delle multinazionali.
Ma la dimostrazione più convincente ci viene dalla recente pandemia, durante la quale abbiamo scoperto quanto fosse drammatico dipendere da forniture estere, alle quali era legata la nostra capacità di far fronte al Covid 19. Per non parlare di ricerca, sviluppo, sperimentazione, produzione e distribuzione dei vaccini.
«Riprendere il controllo del proprio destino» si rivela slogan fallace quando viene concepito in angusti spazi nazionali ma diviene molto meno miope quando si proietta su scala continentale e si definisce nel rispetto delle dinamiche profonde del quadro globale.
In fondo, in un mondo non più bipolare (dopo la caduta del muro di Berlino) e neanche più unipolare (terminata l’illusione della “fine della storia” e di un solo “poliziotto del mondo”), si impone la ricerca di un credibile “equilibrio internazionale” per il XXI secolo.
Due studiosi americani, Richard Haas e Charles Kupchan, hanno ipotizzato, su “Foreign Affairs”, il “Nuovo Concerto delle Potenze” come formula per «prevenire la catastrofe e promuovere la stabilità in un modo multipolare». L’analogia è chiara con il “Concerto Europeo” della prima metà dell’Ottocento. Non un organo decisionale ma un foro discreto ove confrontare francamente interessi convergenti o competitivi, per cercare di concordare le linee di fondo di iniziative comuni, da adottare poi operativamente nei tradizionali ambiti multilaterali.
Molto interessante la composizione che propongono: Cina, Unione Europea, India, Giappone, Russia e Stati Uniti. Non so quale sarà l’attenzione che verrà destinata all’idea dei due politologi. È però estremamente significativo ritrovarvi la constatazione che, ormai, l’unica maniera per fare spazio agli interessi del Vecchio Continente sta nel far posto ad un portavoce unico, quale espressione dell’autonomia strategica europea, ovviamente nella sua interpretazione aperta e multilateralista.
E allora, diciamocela tutta, se dobbiamo puntare, per essere credibili, su una poltrona sola per l’Europa, nel condominio del mondo, preferiremmo che … fosse per Ursula von der Layen invece che per Charles Michel!
Speriamo sia questo uno dei messaggi che i cittadini europei lanceranno con più forza alla Conferenza sul Futuro dell’Europa. Noi ci proveremo.