Più di una volta il presidente del Consiglio ha lasciato intendere cosa pensa della burocrazia italiana. Personalmente ritengo giustificati i dubbi che sembra nutrire perché il tasso di politicizzazione della nostra PA (meglio delle nostre PA perché ne abbiamo di tutte e più e ciascuna fa per se) è eccessivo. Per affrancarla da quel rischio, era stata stabilita, a livello costituzionale, la selezione dei suoi componenti per concorso pubblico ma la misura non ha funzionato. Viceversa la rigidità della sua struttura organizzativa combinata con l’obbligo della laurea per accedere ai concorsi (conseguenze della riserva di legge per l’ordinamento degli uffici) ha creato una burocrazia monotonica culturalmente e forastica psicologicamente rispetto a privato e società civile. Negli anni 60-90 del XX° secolo i ragazzi che uscivano dal liceo senza specifica vocazione o speranza concorsero all’esplosione delle iscrizioni a Scienze Politiche.
Istituita nel 1925 alla Sapienza di Roma questa Facoltà, nel 1963, si emancipò grazie a Giovanni Sartori proponendosi come “la” facoltà in grado di offrire ai futuri commis d’etàt italiani, il meglio del nostro diritto e delle nostre storia ed economia.
Il Sessantotto però la trasformò nella via facile al titolo legale per entrare in ogni ambito dell’amministrazione pubblica: esami di diritto senza le procedure processuali, di Economia senza quelli che importavano conoscenze e applicazioni matematiche, di storia quasi esclusivamente contemporanea a forte contenuto politico. Portabandiera di questa politica universitaria l’Università della Capitale, dieci anni dopo battezzata Esamificio di Stato. Moltissimi colleghi si inalberavano per quanto paventato da pochi ma quando il tempo confermò i dubbi di questi ultimi, ad essere puniti furono gli studenti di quei molti non i loro docenti. Ciò nonostante Scienze Politiche ebbe momenti di gloria complice l’espansione continua del pubblico impiego, il quale offriva garanzie e guarentigie (addirittura una giurisdizione dedicata) di gran lunga superiori al lavoro nel privato.
Monotonicità e forasticità furono il riflesso, di quegli studi, sulla burocrazia insediatasi a partire dalla fine della prima metà degli anni 1970 la quale claudicava di fronte a problemi per cui non era attrezzata culturalmente. In breve il problema si estese a tutte le PA perché arrivarono i laureati del 18 politico, diffusosi da Architettura, via Giurisprudenza, a tutte le facoltà umanistiche. Resisterono solo le facoltà scientifiche, Economia, Matematica, Fisica, Ingegneria ma barcollò Medicina. Le lauree d’annata come le lauree DOC (Bocconi, Normale di Pisa, Politecnico di Torino) non sono invenzioni della stampa dell’epoca.
I limiti della burocrazia italiana sono anche figli della bassa qualità del livello di istruzione offerto dalle nostre Università che non cambierà senza la radicale riforma dei metodi di selezione del corpo universitario docente, dei loro metodi didattici e delle procedure di assegnazione di incarichi, cattedre e istituti delle Università.
Le Università Italiane non possono prosperare se vivono arroccate. E ancora, come nelle Università la chiamata di un visiting professor proveniente dalle professioni, anche quella di un dirigente o professionista o manager proveniente dall’industria privata viene vissuta con insofferenza, la burocrazia vi legge un giudizio negativo su quadri e dirigenti in forze e non l’occasione per un confronto utile a crescere. Non ci sono più ragioni valide per contingentare, con gli attuali limiti, la facoltà dei ministri di nominare soggetti estranei al vertice di dipartimento e direzioni generali delle PA ed è sempre più evidente che, nella maggior parte dei casi, i prescelti lo fanno per prestigio e spirito di servizio non per denaro (guadagnerebbero molto meno rispetto al lavoro abituale); Ciampi, Monti e Draghi gli esempi più eclatanti, non di meno quelli dell’avv. Bongiorno e dott.ssa Capua.
Quanti economisti, ingegneri, avvocati, manager, medici italiani si presterebbero se solo li si chiamasse?
Di certo la maggior parte dei nostri cervelli all’estero, costretti ad emigrare perché l’Italia non assicura titoli di studio competitivi né occasioni professionali o lavorative adeguate. Quadri e dirigenti indigeni hanno dimostrato di subire e non gradire il rientro di questi cervelli i quali si dimostrano insofferenti nei confronti delle procedure e liturgie burocratiche, emancipati sui metodi di lavoro e innovativi su modelli organizzativi e carichi di lavoro.
Basta vedere come è andata l’esperienza di Diego Piacentini, il vice-presidente di Amazon dimessosi per diventare commissario del governo per il digitale e l’innovazione. I malpensanti trattenevano la domanda su quale interesse potesse spingere il manager a rinunciare a un salario milionario senza apparente ritorno che non fosse il prestigio; i benpensanti si sforzarono di spiegare che una carica pubblica del proprio Paese è la forma più esaltante di prestigio per uomini di successo, in quanto riconoscimento pubblico della loro nazione. Stranamente però nessuno si chiese quanto avrebbe potuto guadagnare l’Italia dal lavoro di un manager di quel calibro e quelle conoscenze, così la burocrazia ebbe gioco facile a rigettarlo come corpo estraneo.
In quell’occasione l’Italia confermò i pregiudizi, allora giustificati oggi inaccettabili, di Rino Formica, ministro socialista della Prima repubblica, il quale, in privato, confidava: «In Politica si può pure entrare per arricchirsi ma non solo per arricchirsi».
Il recovery plan sarà l’ultima chance per dotarci di una PA efficiente e imparziale, ossia capace di interpretare la legge in funzione della natura della funzione esercitata e dell’interesse del cittadino da soddisfare, perché in questo consiste «il buon andamento». Ma occorre cambiare criteri e metodi di formazione di dirigenti ed impiegati pubblici, da sottoporre periodicamente ad aggiornamenti sperimentali più che didattici in una Scuola Superiore della PA completamente riformata e aperta a individui della società civile, ordini professionali e impresa privata.
Nella società in cui il welfare è in crisi e il capitalismo è globale, si moltiplica la richiesta di skills legate ad interessi sattisfattibili da capacità che non prevedono la laurea per eccellere: city-manager, web-master, software & engineering manager, money-managing. La speranza è che si allarghino in modo consistente le deroghe al concorso come metodo di reclutamento della nostra burocrazia e le riflessioni sul dogma del valore legale della laurea.