La fine della divisione del mondo in due centri di gravità contrapposti al termine della seconda guerra mondiale doveva affermare nelle intenzioni dei vincitori, con la nascita dell’ONU, una governance della sicurezza e dello sviluppo, che presto sarebbe entrata in crisi a causa del processo di decolonizzazione promosso dagli Stati Uniti in danno delle stesse, ex-alleate, potenze coloniali europee.
La stessa illusione nel primo dopoguerra aveva portato, sempre per iniziativa degli Stati Uniti, alla creazione della Società delle Nazioni, che si era rivelata un formidabile strumento nelle mani di Gran Bretagna e Francia, interessate al controllo del Medio Oriente e alle ex colonie tedesche in Africa e nel Pacifico, minandone in tal modo le dichiarate credenziali come garanti dei principi di pace, sicurezza, disarmo e autodeterminazione dei popoli e alimentando la frustrazione e quindi il revanscismo tedesco e le ambizioni imperiali di Giappone e Italia.
Nonostante la palese contraddizione tra valori affermati e interessi perseguiti, gli equilibri internazionali a gestione americana sono passati, a fasi alterne e secondo le circostanze, da accordi multilaterali a decisioni unilaterali o ad azioni bilaterali. La politica degli Stati Uniti, sempre e comunque sorretta dall’economia neoliberale (anche quando non vuole dirsi tale), ha volteggiato secondo le contingenze tra realpolitik, isolazionismo, internazionalismo (a guida democratica) o globalismo (a guida repubblicana), con il supporto di organizzazioni differenti, dall’ONU e agenzie collegate (FMI, Banca Mondiale, FAO, per citarne solo alcune) alla NATO, dall’OAS alla WTO e al NAFTA.
Il nuovo ordine internazionale deciso a Jalta nel 1945 da Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito tracciava nuovi confini, stabiliva aree di influenza ma poneva anche le basi di una rinnovata ingiustizia internazionale, espressa plasticamente dalle bombe atomiche sganciate sul Giappone e dai milioni di tedeschi espulsi dall’Europa orientale in quegli stessi mesi.
Conseguenza inevitabile dei nuovi equilibri e al tempo stesso negazione della riedizione del sistema multilaterale saranno nell’ordine la creazione di organismi paralleli a quelli occidentali come il Patto di Varsavia e il Comecon, la guerra fredda, un potere comunista in Asia origine di sanguinosi conflitti negli anni a venire, le guerre tra i Paesi arabi del Medio Oriente e Israele, la nascita del movimento dei non allineati ad opera di India, Indonesia, Egitto e Jugoslavia, la decolonizzazione, gli inizi della globalizzazione finanziaria e la creazione nel 1975 del G7, meccanismo occidentale di concertazione monetaria e finanziaria e di sostegno al commercio internazionale.
La riunificazione tedesca e il crollo del sistema sovietico, modificando radicalmente gli equilibri Est-Ovest, assestarono un nuovo colpo al multilateralismo, aprendo la strada a un apparente dominio unilaterale degli Stati Uniti, che, assieme all’Unione Europea, coglievano i frutti del dissesto comunista con l’allargamento della NATO e, parallelamente, dell’Europa a Est, il trattato di Maastricht e la creazione della WTO, iniziative potenzialmente conflittuali tra competitori spesso ex-alleati – Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina, Islam politico -, in una scena sempre più dominata dall’affermazione di uomini forti.
Il quadro appena tracciato dimostra che, se mai accadrà, non si avrà un autentico ed efficace multilateralismo – oggi più che mai necessario nelle relazioni internazionali – se non verrà realizzata nelle parole e nei fatti la collaborazione tra Stati e organizzazioni fin qui mancata nella composizione dei conflitti e nella cooperazione tra potenze, senza rinunciare, come nel caso della Cina, all’affermazione di quei principi di libertà e democrazia che nella realtà, in maniera più che imperfetta, lo stesso Occidente ha spesso negato.
Immagine di apertura: Sede delle Nazioni Unite, Ginevra, foto di Mathias Reding, Unsplash