Tasse, tasse e ancora tasse. Un diluvio. Imposte sul reddito delle persone fisiche (Irpef nazionale, regionale e comunale). Imposte regionali sulle attività produttive (Irap), sui consumi in generale (Iva), sulla benzina (accise), sul reddito delle società (Ires), sugli immobili (Imu), sui rifiuti (Tari).
Tasse implacabili, alle quali se ne aggiungono tante altre dai nomi più diversi. Secondo uno studio pubblicato dal Corriere della Sera gli italiani solo a giugno devono assolvere a quasi 150 obblighi tributari. Tanti, troppi. Un “incubo” per i lavoratori dipendenti, autonomi e i pensionati italiani. È un colpo pesantissimo. È un problema antico. Da decenni i vari governi (di centro-sinistra, di centro-destra, populisti, di unità nazionale) promettono solennemente un taglio delle tasse, una riforma del fisco in nome dell’equità sociale.
Sono promesse sempre disattese. In trent’anni di Seconda e di Terza Repubblica non c’è stata alcuna riforma del fisco. Al massimo, secondo i vari interessi di consenso elettorale, è arrivata una pioggia di bonus (bebè, cultura, vacanze, bici, facciate). Il bonus di 80 euro al mese (governo Renzi) e poi di 100 euro (esecutivo Conte due) ha premiato i lavoratori dipendenti a reddito basso-medio; la flat-tax al 15% (ministero Conte uno) ha favorito i lavoratori autonomi con partita Iva.
Gli squilibri e le ingiustizie sono cresciuti. La pressione tributaria italiana complessiva, già altissima, ha addirittura oltrepassato il 50% dei redditi perfino nella catastrofica era del Coronavirus. Certo non per tutti è andata così. I tartassati dall’Agenzia delle entrate sono sempre i soliti noti: i contribuenti onesti e quelli che, comunque, non possono sfuggire alla ruspa del fisco: in particolare i lavoratori dipendenti e i pensionati.
Un universo sconfinato di soggetti evade o elude il fisco. Diverse stime parlano di tasse evase per circa 120 miliardi di euro l’anno (secondo Luigi Di Maio l’Italia addirittura «ha 300 miliardi di euro di evasione fiscale»). Chi evade o elude, in genere, gode di un alto reddito. Soprattutto le multinazionali e i grandi gruppi, non è un mistero, si rifugiano nei “paradisi fiscali”.
Non c’è bisogno di andare lontano, nei Caraibi, in isole esotiche come Bahamas e Cayman. Addirittura nell’Unione europea c’è chi assicura ospitalità fiscale con esborsi minimi o addirittura insignificanti per colossi come Amazon, Google, Microsoft, Stellantis. Paesi cosiddetti virtuosi spesso in cattedra verso la “spendacciona” Italia mettono il tappeto rosso in particolare alle multinazionali: è il caso di Olanda, Lussemburgo, Irlanda. Ma anche Cipro e Malta fanno la loro parte. Il Regno Unito, da poco uscito dalla Ue, non scherza. Così i contribuenti onesti pagano due volte: per loro e al posto di evasori ed elusori.
Forse qualcosa sta cambiando, almeno per le zone franche a vantaggio delle multinazionali. I ministri delle Finanze del G7 ai primi di giugno a Londra hanno raggiunto una intesa «sul principio di una aliquota globale minima del 15% per la tassazione delle grandi imprese». Ora occorrerà vedere se i diversi paesi del mondo, in testa quelli del G7, applicheranno l’accordo sulla fine della pacchia fiscale per le multinazionali (in alcuni casi pagano meno dell’1% sui profitti realizzati).
La lotta all’evasione non è solo un problema etico, ma anche finanziario. Occorre far pagare gli evasori per tagliare le tasse a chi ne paga troppe e per favorire gli investimenti. Ernesto Maria Ruffini più volte si è scagliato contro gli evasori. Il direttore dell’Agenzia delle entrate ha indicato la strada: «Il patrimonio da aggredire è quello dell’evasione fiscale».
Bene, ma la riforma fiscale deve farla il governo. La lotta all’evasione e all’elusione fiscale è un compito dell’esecutivo e dell’Agenzia delle entrate, braccio operativo del ministero dell’Economia. I governi Berlusconi, Prodi e Conte promisero il taglio delle imposte e la riforma fiscale ma gli impegni restarono disattesi.
Va cambiato tutto il sistema tributario, vanno tagliate le tasse soprattutto a lavoratori e pensionati, rispettando il dettato costituzionale della proporzionalità. Il fisco è uno strumento importantissimo sul piano dell’equità sociale per redistribuire il reddito nazionale ed è determinante come leva di sviluppo economico e del lavoro (incentivando gli investimenti, ad esempio, nell’economia verde o disincentivando le produzioni altamente inquinanti).
Mario Draghi non ha dimenticato il tema tasse. Il presidente del Consiglio ha anticipato tre paletti: 1) «Il principio di progressività va preservato»; 2) basta con i bonus; 3) la riforma fiscale da presentare a luglio «deve contribuire alla crescita». È la prova del fuoco per SuperMario. Il governo penserebbe di ridisegnare le aliquote Irpef per alleggerire il prelievo sui ceti medi (28-55 mila euro l’anno di reddito) ma all’interno del governo Lega, Forza Italia, M5S, Pd, Italia viva, Leu parlano lingue diverse.
«Le tasse sono una cosa bellissima» disse nel 2007 Tommaso Padoa Schioppa. L’allora ministro dell’Economia (governo Prodi due) voleva sottolineare il valore civico delle imposte perché servono a finanziare i servizi essenziali dello Stato come la sicurezza pubblica, l’istruzione e la sanità. Però «le tasse non sono una cosa bellissima» se c’è chi evade godendosi uno yacht e chi paga ma deve tirare la cinghia per arrivare a fine mese; se i servizi pubblici sono malmessi o praticamente inesistenti; se i tributi servono a finanziare gli sprechi.