Non è difficile essere conquistati da quel pensiero di Romano Guardini, tratto dalle sue Cose ultime, in cui si attesta, con quella franchezza restituita da colui il quale tende al valore supremo della conoscenza, la qualità grammaticale d’una parola, vale a dire del suo germinante fusto etimologico.
Il teologo e scrittore veronese afferma, con quel tremito di sapienza capace di commuoverci, come, appunto, «la perdita di una parola» sia in realtà «molto più grave dell’incomprensione che può nascere durante una conversazione. Si perde una di quelle forme in cui l’uomo esiste. Si oscura – afferma – uno di quegli indicatori che gli consentono di procedere rettamente. Si spegne una luce, e il suo giorno spirituale si offusca».
Che l’oblio di una parola possa comprimere, offuscare, la dimensione stessa del proprio giorno spirituale, mostra una consapevolezza nuova relativa alla lingua, alla comunicazione, ma, in particolar modo, all’intimo calore della poesia. Il peso, dunque, cioè il suo variegato spettro ponderale, è quanto sostanzialmente sembra preoccupare Guardini; esso corrisponde, – a fronte della sua speculazione filosofica e teologica, – a quel sentimento percettivo posto alla base della consistenza del portato poetico. Avvertiamo la stessa ansietà nell’estensione della poesia secreta – ne è un esempio – da Edoardo Cacciatore, nel momento in cui l’autore spinge fin quasi all’evaporazione la materia pulviscolare delle parole, aggrovigliandole, e, in apparenza cristallizzandole nei suoi eleganti tetrastici, in quel fundus oculi il cui traliccio può catturare anche il Peso di un raggio.
Checché se ne dica in poesia e ancor più in tale suo esilio contemporaneo, ci rendiamo conto di quanto il biologico, il corporeo s’immettano nell’interiorità. Nessuna dicotomia. Poesia: è, essa stessa, insieme di ‘fatti’ calati nel bagno della propria anima; un innere indissolubilmente impresso nel corporeo: è corpo, materia che arde parole, che esalta azioni, che mescola il proprio scenario molecolare, che lo distilla. D’altronde come non attribuire alla poesia tale distillato, o, quanto meno, – lo suggerisce il prestigio di Giòrgos Sefèris, – quel fondo di ‘cisterna’ in cui tutto precipita per essere raccolto, maturato, rigenerato.
Del resto lo scrivere, – nella pertinenza assoluta del Le livre du dialogue di Edmond Jabès – non significa porre distrattamente del nero su bianco, ma sottolineare come colui che scrive dev’«essere se stesso quel nero nel quale si mettono le parole». Parole tra loro interagenti come in un cruciverba, in quanto i lemmi di un puzzle (troviamo nelle Parole incrociate di Emilio Cecchi) pur parendo «disciolte e gratuite, in realtà si attraggono, si pungono, reagiscono una sull’altra come l’acido sul metallo, e sul ferro la calamita». Di certo la poesia non è l’insistito gioco con le parole di cui subiamo l’assedio, ma, in sintonia con Sebastiano Vassalli, “vita impigliata in una trama di parole”. Una biopoetica in cui, nell’accezione decisa di Josif Brodskij, ci dice con pacata armonia: «le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono. La biografia di un poeta è nelle sue vocali e sibilanti, nella sua metrica, nelle rime e nelle metafore». Chi sono, dunque, i poeti autentici, i ‘puri’? Scrivendo di Campana, l’autore dei Canti Orfici, Vassalli ne delinea la cripto-morfologia; semplice: «Gli unicorni, i mostri».