L’Italia che si affaccia quasi fuori dal tunnel della pandemia sublima gli europei di calcio a evento globale, survoltandolo e caricandolo di significati che nascondono la crisi endemica del nostro calcio. Quasi tutti i club nostrani versano in condizioni pre-fallimentari ed è significativo che la stessa squadra neo-campione d’Italia (l’Inter), un attimo dopo aver conquistato lo scudetto, abbia innestato una
poderosa marcia indietro nel segno del ridimensionamento economico provocando l’immediata fuga del tecnico Conte, uno che in quanto a cupidigia monetaria è unico al mondo.
Del resto cosa si può pensare di un football che ha concesso a un procuratore come Rajola, non proprio il Lord Brummel della pedata, di intascare 328 milioni di provvigioni come percentuale per i servizi resi ai propri assistiti? I presidenti sono anche ricchi scemi o consapevoli bancarottieri? L’euforia per gli Europei, per Mancini, il tricolore come occasione di rivalsa, riversano sull’evento attenzioni tecnicamente ingiustificate. Nell’ambito dello sport globalizzato è l’evento che dura di più nella storia dello sport. Addirittura un mese. Più dei mondiali di calcio, più delle Olimpiadi in Giappone, con una formula sciocca che non piace allo stesso reggitore del calcio continentale, Ceferin, costretto a dirigere un cartellone allestito dal discusso predecessore Monsieur Platini. Che poi lo stress colpisca un giocatore come Eriksen è relativo: the show must goes on. Come il prosieguo della partita tra Finlandia e Danimarca. Del resto non si andava al cinema anche durante la Seconda guerra mondiale?
L’Italia potrà intascare con tre successi il proprio girone ma potrà fare fuff e flop con un solo scontro diretto decisivo quando la manifestazione entrerà nel vivo. Intanto il “rischio calcolato” di Draghi diventa “rischio esagerato”. Divieto di assembramenti e prudenza? Macché! Raduni di massa con i maxi-schermi a misura di migliaia di persone che non possono entrare allo stadio e che per vedere l’evento non dovranno sfoggiare il mitico Green Pass le cui regole cambiano di giorno in giorno senza mai arrivare a un punto d’arrivo (clamorosa la bocciatura in extremis della piattaforma “Io”). Sopravvalutazione dell’evento anche nel palinsesto televisivo con la doppia aggressione Rai-Sky dalla quale si salva, inevitabilmente, la parte migliore dell’umanità: le donne, brave a fiutare l’eccessiva sottolineatura sul prodotto.
Rigurgiti di sovranismo e nazionalismo si riversano sull’Italia e su una nazionale che si trova investita di clamorose responsabilità.
Colpa del momento, si dirà, ma la razionalità dovrebbe intervenire per moderare questa euforia che potrebbe trasformarsi in depressione se il campo dovesse regalare agli azzurri i possibili momenti negativi. Non è una generazione di fenomeni, in campo non ci sono gli assi di altre nazionali. Il valore aggiunto è la squadra e l’intercambiabilità di molti soggetti. L’eliminazione al dunque della selezione Under 21 mostra l’inferiorità del vivaio rispetto a tante altre omologhe nazionali occidentali. Per un virgulto azzurro trovare l’inserimento stabile in prima squadra è spesso una chimera in un calcio mercato regolato da regole assurde e anti-storiche ma utili per mantenere questo mondo incantato nella sua precarissima bolla.