Abbiamo il piacere di incontrare la Prof.ssa Flavia Franconi, una dei fondatori del Consorzio Interuniversitario “Istituto Nazionale Biostrutture e Biosistemi” e direttrice del suo Laboratorio Nazionale di Medicina e Farmacologia di Genere presso l’Università di Sassari, di recente nominata Coordinatrice della Commissione Equity in Health del G20 Women.
Negli anni Ottanta lei fu fra le antesignane in Italia ad occuparsi della farmacologia e medicina di genere, dovendo superare non poche diffidenze nella comunità scientifica che riteneva, al tempo, poco più di una curiosità quegli studi. In realtà gli uomini e le donne sono diversi in tutti i campi della salute, nel senso sia che hanno ciascun gruppo maggiori probabilità di sviluppare una malattia rispetto all’altro e lo stesso vale per la risposta ai farmaci che per un gruppo possono risultare più efficaci e con minori controindicazioni rispetto all’altro. Inoltre le intuizioni dell’antichità (Ippocrate che descrisse la gotta per le donne come un evento post-menopausa ed Avicenna che notò come l’emicrania sia una patologia a larga diffusione fra le donne) iniziarono, dalla metà del Novecento, a essere confermate da studi sulla diversa risposta farmacologica e dalle evidenze strumentali permesse da nuove tecniche come l’elettrocardiogramma. Pertanto bisognava avere la consapevolezza che era doveroso “inforcare le lenti di genere” per poter interpretare sia i maggiori rischi, sia le più opportune terapie a favore di donne e uomini. Questo approccio è ora generalmente accettato ed è anche alla base della medicina personalizzata e delle strategie di prevenzione che sono fra gli obiettivi principali nell’evoluzione degli studi e della pratica medici.
Dottoressa Franconi, a che punto della sua carriera si è avvicinata alla medicina di genere?
A dire il vero mi sono accorta di alcune problematiche connesse alla medicina di genere all’inizio della mia carriera, quando ero una giovane ricercatrice. Tuttavia il mio mentore mi ha consigliato di starne lontano, perché ci sarebbe voluto troppo tempo per fare gli esperimenti questo e mi avrebbe rallentato nella carriera accademica. Ho potuto, per così dire, permettermi questi studi molto più tardi, quando sono diventata professore ordinario e ho potuto rendere tangibili le considerazioni teoriche fatte fino ad allora. A partire da quel momento mi sono costantemente impegnata a diffondere questo tipo di studi (o meglio di cultura) in Italia, anche se inizialmente non è stato semplice: certi temi sono stati inizialmente accolti con un certo scetticismo e con sorrisi di condiscendenza. Io non mi sono arresa e ho cercato di coinvolgere anche gli uomini: ho parlato, per esempio, con l’allora presidente della Società Italiana di Farmacologia, il professor Gian Luigi Gessa, convincendolo della necessità di studiare gli effetti dei farmaci nell’uomo e nella donna. Proprio in quel periodo mio figlio si è laureato e io, preferendo fare qualcosa di utile piuttosto che farmi venire la “sindrome del nido vuoto”, mi sono dedicata ancora di più alla ricerca e alla diffusione della cultura di genere in Italia.
Nel contesto della medicina di genere quella dei trial clinici è una tematica molto rilevante, ce ne può parlare?
Ancora oggi la medicina è androcentrica. Quindi, a livello farmacologico e non solo, vengono considerati come “norma” il peso medio e l’altezza media degli individui di sesso maschile, la loro distribuzione del grasso e la loro funzione enzimatica. Si usano le stesse dosi per uomini e donne e non si riesce a scardinare questa consuetudine, anche a causa di forze che si oppongono in modo più o meno consapevole. Non bisogna dimenticare che a questo, che è un discorso scientifico, si sovrappone inevitabilmente un discorso ben più ampio: nella nostra cultura di matrice giudaico-greca la donna è considerata “qualcosa di meno”. D’altronde, abbiamo una prova di questo anche nella pratica (per ora diffusa prevalentemente negli USA) di usare la procreazione medicalmente assistita per selezionare il sesso del nascituro, che il più delle volte si desidera maschio. Credo che il ritardo negli studi sugli effetti che i farmaci hanno nel genere femminile, dipenda anche dalla scarsa considerazione e dallo scarso potere che le donne hanno all’interno della società.
Le terapie farmacologiche dovrebbero essere differenziate a seconda del genere biologico?
Sia chiaro, i principi attivi dei farmaci con ogni probabilità vanno benissimo per trattare sia gli uomini che le donne. Il discorso cambia se parliamo di dosaggio. È celebre il caso dello Zolpidem, un farmaco ipnotico che viene usato da circa 20 anni per trattare l’insonnia. Solo 6 anni fa, grazie agli organismi di farmacovigilanza statunitensi, ci si è accorti di un fenomeno apparentemente bizzarro: alcune donne la mattina dopo aver assunto Zolpidem erano coinvolte in incidenti stradali, pur avendo seguito le indicazioni del foglietto illustrativo! Dopo l’intervento delle agenzie del farmaco internazionali, il dosaggio è stato rivisto ed è stato ridotto del 50% nelle donne. Ma prima che questo avvenisse, sono stati legati ad una assunzione scorretta di Zolpidem almeno 700 incidenti (anche se alcuni lavori recentissimi non dimostrano ciò). Una terapia appropriata deve tenere conto del diverso metabolismo, quindi il genere deve essere messo nelle prime fasi della ricerca. Adesso persino la sperimentazione animale viene condotta su un campione che conta il 75% di esemplari maschi, è normale che si sappia ancora troppo poco sulle specificità dell’organismo femminile in medicina. Nella mia visione delle cose bisogna fare un ulteriore passo avanti: la medicina di genere dovrebbe essere “sindemica”, considerare cioè non solo tutte le caratteristiche intrinseche dell’individuo ma anche quelle ambientali e sociali. Solo con un approccio che sia al tempo stesso personalizzato e olistico si potrà smettere di curare la malattia e iniziare a curare le persone.
Dove si dovrebbe intervenire e cosa si dovrebbe fare per cambiare questa situazione?
Fin quando non si mettono le donne nelle Commissioni che contano, i bisogni di salute specifici del sesso femminile non verranno portati ai decision makers e quindi non si intraprenderanno le azioni necessarie per soddisfarli. A livello di formazione universitaria, penso che occorra inserire tematiche di genere in tutte le materie, non creare corsi di medicina di genere all’interno della facoltà di Medicina. Ovviamente, perché ciò avvenga, dobbiamo supportare i docenti e creare dei training appositi. Tutto questo rischia però di rimanere lettera morta se non si incentivano adeguatamente la ricerca, lo studio e la diffusione della medicina di genere. Pensi che nel corso del Global Health Forum di quest’anno non sono mai usciti temi di appropriatezza e medicina di genere, con mio grande disappunto.
Che incentivi servono?
È semplice, finanziamenti. Le ricerche che si occupano di gender dovrebbero riceverne di più, anche perché sono studi che costano effettivamente di più in termini di tempo e di risorse, basti pensare al fatto che i trial vanno condotti su molti più soggetti. Agenzie come l’ANVUR, preposte alla valutazione della qualità della ricerca, dovrebbero poi inserire tra i parametri di valutazione l’essersi dedicati agli studi di genere. Senza incentivi non è possibile vincere l’inerzia di questo andamento culturale. Ma si badi bene, nel dire questo non mi riferisco solo all’Italia, ritengo sia un problema internazionale. E talvolta ritengo anche che spesso le donne contribuiscano ad alimentarlo, adottando modelli di leadership maschile. Dobbiamo smetterla di vedere negli uomini un modello di successo e creare nuovi modelli, che siano (finalmente!) femminili e basta.