Esattamente duecento anni fa (5 maggio 1821) moriva a Sant’Elena Napoleone Bonaparte. Alessandro Manzoni ne ebbe notizia qualche settimana dopo e, sull’onda dell’emozione provata, scrisse l’ode Il 5 maggio, che gli procurò diverse difficoltà con la censura austriaca di Milano, assai riluttante nel veder celebrato un imperatore che considerava un nemico anche dopo la sua morte.
Ma che cosa resta di Napoleone a distanza di duecento anni, che cosa ha lasciato all’Europa l’uomo che più di ogni altro ha impersonato la gloria militare, il potere, la conquista, e che in definitiva per quasi vent’anni ha imposto alle nazioni europee le sue decisioni e le sue scelte.
Scendendo nella cripta che contiene la sua monumentale tomba a Les invalides, troviamo le statue che rappresentano tutte le grandi battaglie che segnarono i destini europei, e proprio in quel luogo si legge anche il nome del code civil. Ecco, Napoleone ci ha lasciato il primo vero codice civile moderno, che costituisce lo spartiacque tra il diritto di Ancien règime ed il diritto moderno, e che ha declinato nella vita di tutti i giorni le conquiste della Rivoluzione.
L’uguaglianza politica diviene uguaglianza civile, i privilegi feudali e nobiliari vengono eliminati; lo stato civile passa dalle parrocchie ai comuni; la proprietà viene elevata a centro dell’economia ed a modello del diritto soggettivo; il lavoro manuale ed intellettuale diviene un valore dell’intera società; la concezione borghese della famiglia con il marito e padre capo indiscusso, nonché la tendenziale parità dei figli nelle successioni, si afferma in modo definitivo.
Se tutto ciò è stato possibile, lo si deve in gran parte alla determinazione di Napoleone: la legge 30 ventoso, anno XII, del calendario rivoluzionario, ovvero il 21 marzo 1804, promulgherà il testo completo del code civil, raccogliendo il contenuto di trentasei leggi precedenti. Redatto da quattro magistrati e giuristi (il provenzale Portalis, il più brillante dei quattro, il parigino Tronchet, il bretone Brigot de Préameneau, il segretario Maleville, proveniente dal Perigord), il codice civile francese ha vissuto, e non poteva essere altrimenti, al massimo grado il processo di identificazione con il positivismo giuridico, con l’idea di una legge onnipotente e di un giudice neutrale applicatore della volontà legislativa, con il mito della completezza e dell’organicità di un sistema positivo.
Anche la diversa estrazione geografica dei redattori non è casuale: in Francia, prima della rivoluzione, si applicava un diritto diverso nelle varie parti del paese: al sud il diritto romano, al nord le coutumes, ovvero le consuetudini cittadine. Il diritto civile aveva dunque bisogno di una unificazione e di un ordine, non tanto nel senso di prescrivere un ordine nuovo, quanto di far emergere quell’ordine che è proprio della natura delle cose e che era stato calpestato in passato: come diceva Sant’Agostino: ‘parium dispariumque rerum, sua cuique loca tribuens dispositio’ (Civ. Dei, XIX, 13).
Anche sotto il profilo formale il code si caratterizza per uno stile chiaro e conciso, senza rinvii e senza termini troppo complessi. Si dice che Stendhal leggesse ogni giorno alcuni articoli del code per migliorare il suo stile, “pour prendre le ton”, e Paul Valery lo avrebbe definito “l’oevre plus importante de la littérature française”. Pur attraversando varie esperienze, dal tribunato alla restaurazione, dalla monarchia di Luigi Filippo all’impero di Napoleone terzo e quindi alla repubblica, nessuno si sognerà di proporne non tanto l’abolizione (non è un caso che sotto la monarchia di luglio il figlio di Portalis sieda tra i pari di Francia), ma neanche una revisione sostanziale.
Sarà questo, e durerà per quasi tutto l’Ottocento, il periodo caratterizzato dalla scuola dell’esegesi, una metodologia giuridica che prescriveva all’interprete di non discostarsi dalla lettera del codice, dovendosi limitare ad applicarla nel modo più neutrale possibile, in quanto i valori sono disponibili soltanto dal legislatore: i grandi civilisti francesi dell’Ottocento, Duranton, Troplong, Vallette, Marcadé, Demolombe, appartengono, con accenti diversi ma con impostazione sostanzialmente unitaria, a questa scuola.
Per oltre un secolo il codice civile francese resta dunque un mito: la famosa frase di Bugnet “Je ne connais pas le droit civil, j’enseigne le Code Napoléon”, rende perfettamente l’idea di un ordinamento basato esclusivamente sul testo del codice, che le critiche, per quanto diffuse e variegate, non riescono ad incrinare. Occorrerà giungere alla fine dell’Ottocento, soprattutto grazie alla riflessione di François Gény, perché la scuola dell’esegesi venga abbandonata.
Tuttavia, nonostante tali critiche, da quelle della dottrina, rappresentata dalla rivista La Thémis, a quelle della giurisprudenza, rappresentata dal bon juge Magnaud, il codice civile francese è ancora vigente in Francia, sia pur con delle ampie modifiche, ed è stato preso a modello dall’Italia sia per il codice post unitario del 1865 sia per quello vigente approvato nel 1942. La forza della tradizione premia l’impostazione francese nonostante la dottrina civilistica italiana sia influenzata in quegli anni dalla scuola sistematica tedesca, e l’Italia sia nel 1942 alleata della Germania ed in guerra con la Francia.
Dunque ricordare il legato di Napoleone alla civiltà giuridica europea mi sembra il modo migliore non solo per sottolineare un contributo significativo all’identità dell’Europa, ma anche per ricordare la sua figura, una figura che nonostante il trascorrere di monarchie, di imperi e di repubbliche resta, in Francia, espressione di una grandeur che non ha mai voluto, e non vuole, arrendersi alla globalizzazione.