Sarà bello raccontare il luglio del 2021 tra qualche anno; l’anno in cui, con il tasso di vaccinazioni anti-covid che procede spedito, abbiamo assistito alla vittoria della nazionale maschile agli Europei di calcio dopo 53 anni. Sarà bello forse ancora di più quando ci saremo dimenticati che quella stessa Nazionale ha inspiegabilmente deciso di non inginocchiarsi in supporto al movimento Black Lives Matters. Un dibattito pubblico – quello intorno a questa scelta – molto più acceso e rumoroso di quanto non lo sia stato quello circa le devastazioni e violenze compiute dai tifosi, incluse le scariche di odio razziale vomitate sui profili social dei tre giocatori della nazionale inglese (Rashford, Sancho e Saka) che hanno sbagliato i rigori e che sono tutti e tre afrodiscendenti. Ma se inginocchiarsi per una causa antirazzista non dice niente del vero impegno alla sua lotta, cosa dice il fatto di non farlo?
Luglio 2021 avrebbe anche potuto essere il mese in cui si approvava il disegno di legge Zan. Una proposta che mira a incrementare le tutele e rafforzare la lotta contro omo-bi-trans-fobia, misoginia e abilismo, attraverso strumenti concreti come l’introduzione di tutele penali, l’aumento dei fondi per i centri di supporto, la promozione della sensibilizzazione nelle scuole e il monitoraggio dei dati su violenze e abusi in una strategia di contrasto e prevenzione nazionale. Eppure, nelle registrazioni degli interventi al senato – come pure nella narrazione di certi media e certi politici nei mesi scorsi – la proposta viene dipinta come un bavaglio alla libertà di espressione. Libertà, si evince dunque, di poter ledere la dignità delle persone appartenenti alla comunità LGBTIQ+ (misoginia e abilismo vengono sempre messe in secondo piano rispetto allo spauracchio della fantomatica teoria gender) senza pagarne le conseguenze.
– Ma l’omofobia – dice Mirko – è un problema più della classe politica italiana che degli italiani secondo me –
Mirko Darar è un comico di stand-up, diventato famoso per la sua partecipazione al programma Comedy Central, e in particolare per i monologhi in cui racconta il proprio coming out alla mamma siciliana e al padre egiziano – sulla carta, non proprio lo stereotipo dei genitori progressisti. Accanto a lui Leonel Santana, il suo compagno: seduti sul divano della casa milanese in cui convivono, mi guardano attraverso lo schermo del computer. Ogni tanto nell’inquadratura spunta una cagnolina che cerca l’attenzione dell’uno o dell’altro, corollario perfetto dell’armonia domestica che emana dalla loro immagine.
– Quando ho cominciato più di una persona mi diceva “non ti esporre tanto su questo tema, ne pagherai le conseguenze”. Io più che di quello avevo paura di non far ridere. Credo sia una paura comune per chi fa questo mestiere. Invece la gente rideva, e rideva con me. Allora ho cominciato a pensare che il problema fosse politico, ma che la società civile è molto più avanti. –
Mi piacerebbe approfondire questo discorso per capire quanto c’è di vero. Questo messaggio è in qualche modo già emerso in interviste precedenti. Mi vengono in mente di nuovo i sondaggi su Ius Soli e Ius Culture, i cui risultati ci mostrano un’Italia inclusiva, molto più dell’immagine che ci rimanda la politica (qui per leggere qualche dato). Lascio perdere, ma mi viene una curiosità, dunque chiedo:
– Leonel, tu sei cittadino italiano? –
–Sono cittadino italiano, ho preso la cittadinanza tempo fa. Sono arrivato in Italia minorenne dalla Repubblica Dominicana. Mia madre era già qui e l’aveva presa. Avevo 16 anni, la metà degli anni di adesso. –
– E com’è stato questo cambiamento? Come lo hai vissuto? – Leonel è meno chiacchierone di Mirko. Nel corso dell’intervista mi dovrò impegnare un po’ di più per farlo parlare.
– Quando sono arrivato non ero entusiasta. Sai, ero un adolescente. A Santo Domingo c’erano ancora mio padre e mia sorella. Mia madre era arrivata qualche anno prima, stava costruendo una vita per sé stessa e per noi. Ha fatto tutto da sola e devo dire che ha fatto molto. Poi andando a scuola… Sai come succede… Ti ambienti, il centro della tua attenzione si sposta, e quindi sono diventato milanese. Un milanese dominicano, certo, ci tengo molto alla mia identità –
– Cosa vuol dire questo per te? – gli domando ancora.
– Beh, mettiamola così: quando sono arrivato ho vissuto uno shock culturale. Adesso quando torno in Repubblica Dominicana sto benissimo, ma dopo qualche settimana mi comincia a mancare la mia città. Anche cose banali come il casino, il traffico, la mia routine. E il mio lavoro, lavoro nella moda da 10 anni, è qualcosa che amo molto. –
– Mirko, tu neanche sei milanese. Com’è stato venire qui? –
– Io sono venuto per lavoro. Il primo anno è stato duro perché non avevo molti soldi. Abitavo in periferia ma devo ammettere che non mi dispiaceva. Sento la mancanza del verde, mi piacerebbe in futuro tornare in una zona meno centrale magari, ma meno cementificata. Del resto, vengo dalla Liguria, sono cresciuto in un contesto molto diverso, direi quasi campagnolo –
– Una specie di shock culturale anche per te insomma – ridiamo tutti e tre –
– Ma scherzi a parte, a proposito di origini e provenienze, parliamo di come si conciliano le vostre radici con l’identità omosessuale. Venite da contesti aperti in questo senso? Come è stato il coming out con le famiglie? – chiedo di nuovo a Leonel di esprimersi per primo.
– Il coming out l’ho fatto in Italia, anche se lo sapevo già, l’ho sempre saputo. In ogni caso avevo deciso di aspettare i 18 anni per dirlo ai miei. Se mi cacciano di casa, pensavo, almeno sono autosufficiente –
Leonel pronuncia questa frase quasi distrattamente, come se niente fosse, ma a me scricchiola un po’ il cuore. Abbiamo tanto interiorizzato l’idea che essere omosessuali sia qualcosa di spiacevole che prendiamo in considerazione l’idea che un genitore ci cacci di casa per questo motivo. Di più, ci prepariamo a questa eventualità con la stessa naturalezza con la quale, a novembre, prendiamo l’ombrello prima di uscire di casa.
– Comunque, nonostante la maggiore età, avevo paura. Quindi ho deciso di farlo scrivendo una lettera a mia madre. Gliel’ho messa in borsa prima che uscisse e quando è rientrata abbiamo parlato. Più tardi l’ho detto anche a mio padre, che è stato molto comprensivo, sicuramente più di quanto non mi aspettassi. Credevo che sarebbe stato più severo, più deluso. Sono stato fortunato. –
– Mirko, il tuo coming out, lo abbiamo detto, è più famoso, si può ascoltarne il racconto su youtube. Ma tu avevi paura? –
– Io sono sempre stato un tipo abbastanza ribelle, ti dico solo che quando è arrivato il momento ho esordito dicendo “vi devo dire una cosa, se vi va bene, bene; se non vi va bene me ne vado!”. Un modo un po’ teatrale, che a posteriori, devo ammettere, serviva probabilmente a nascondere una certa paura. Però a proposito di contesto culturale, ricordo distintamente che la cosa che mi metteva più ansia era l’idea di dirlo agli amici –
Poi continua: – A 17 anni l’omosessualità era qualcosa su cui scherzare. Facevamo tutti battute sceme, spesso omofobe, me incluso. Non sapevo come l’avrebbero presa, temevo mi avrebbero allontanato. Io sono sempre stato una persona molto fisica e ricordo di aver intenzionalmente smesso di abbracciare il mio migliore amico nelle settimane precedenti. Quando poi gliel’ho detto lui ha collegato le due cose ed è rimasto sconvolto dal fatto che avessi potuto dubitare di lui –
– Però tutto sommato è comprensibile, no? Che avessi potuto dubitare intendo – gli chiedo
– Si, infatti è per questo che ho iniziato a credere che l’omofobia non sia un problema delle persone ma della politica, se capisci cosa intendo. Non voglio dire che non esistano persone omofobe, ovviamente. Ci sono e sono molto pericolose, fanno molti danni. Voglio dire però che lo sforzo di negare i diritti e di ledere la dignità delle persone LGBTIQ+ è molto più un problema di sistema, di tv, di Vaticano, insomma di chi ha potere – di quanto non lo sia del cittadino medio. La sensazione più forte che mi è rimasta dal coming out con i miei amici è che una volta entrati in contatto con questo animale esotico che è “il gay”, avessero realizzato che non siamo poi niente di così fuori dal normale e in un certo senso avessero smesso di preoccuparsene –
– Pensi che se più figure pubbliche facessero coming out sarebbe più semplice? –
– Il coming out è una cosa molto privata, io l’astio verso chi decide di non esporsi non lo capisco. Ognuno fa quello che può e si prende i carichi emotivi che può –
– Okay, ma alla luce di quello che dicevi prima, la rappresentazione non conta? Non è importante mostrare le molte facce della normalità? –
– Devo ammettere che è un po’ frustrante vedere sempre una rappresentazione macchiettistica degli omosessuali. Mi piacerebbe vedere altri esempi, in tv per esempio, nei programmi nazional-popolari tipo Il Grande Fratello. Ma la storia piano piano fa il suo corso, non credo si possano forzare i tempi. Piuttosto che condannare la singola figura pubblica mi piacerebbe vedere uno sforzo di avanzamento collettivo. Torno a ripeterlo: credo sia compito della politica influenzare la cultura, invece guarda la quantità di sforzi per affossare una proposta come quella di Zan. E quante fake news sono girate su questa legge! –
Restiamo ancora un po’ sul tema della rappresentazione e della normalità. Curiosamente anche qui, come nelle storie che ho raccontato in questi mesi, torna lo stesso concetto: la stanchezza di dover costantemente incarnare un esempio virtuoso, perché altrimenti qualunque caratteristica non “nelle righe” (qualunque caratteristica non “eteronormata”, si direbbe in questo caso) verrà presa come motivo e ragione per qualunque altro aspetto della propria vita che non funziona. Insomma, l’imperfezione è qualcosa che si può concedere solo a patto di non avere altre caratteristiche spaventose come non essere bianchi, essere immigrati, appartenere a culti religiosi al di fuori della cristianità e così via.
La mia mente si spinge ancora un po’ più avanti per analogia, e mi trovo per qualche secondo a riflettere sulla cosiddetta trappola della meritocrazia (per saperne di più The meritocracy trap) quando si parla delle politiche per il contrasto alle disuguaglianze economiche e della narrazione che di esse abbiamo.
– Ma il futuro è eteronormato? – li prendo un po’ in giro, voglio sapere cosa pensano del matrimonio e dell’idea di avere figli.
Viene fuori che sì, a entrambi piacerebbe sposarsi, un po’ per una questione emotiva un po’ per una questione di tutele legali. Parliamo un po’ di questo e in effetti non viene fuori molto di più delle motivazioni che da una qualunque coppia di trentenni.
– Mi piacerebbe avere figli – aggiunge poi Leonel – Quando avevo 24 anni mi proposero di adottare una bambina dominicana. Io non me la sono sentita, ero single e troppo giovane –
Poi aggiunge: – Troppo giovane per gli standard italiani in effetti, in Repubblica Dominicana i ragazzi di quell’età hanno già figli grandicelli. Per me diventare padre a 24 anni era un impegno spaventoso –
– E a te, Mirko? – gli chiedo.
– Io penso di essere stato papà fin da bambino – risponde lui – Credo che questo sia l’unico aspetto della mia sessualità che mi ha creato qualche mal di pancia: l’idea di non avere un figlio biologico. Poi ci sono sceso a patti, in fondo non è detto che sarebbe accaduto se fossi stato etero. Mi piacerebbe adottare però, escluderei l’idea dell’utero in affitto –
Mi viene da correggerlo, la dizione corretta sarebbe maternità surrogata. Credo che utero in affitto sia una dicitura che sottende un giudizio negativo. Alla fine non lo faccio, e Mirko può completare il suo pensiero.
– Non mi fraintendere, non giudico chi lo sceglie, ma io non me la sentirei. Perché spendere, che so, 70 mila euro per un bambino che abbia i miei geni, quando posso soddisfare il mio desiderio in maniera altruistica con l’adozione? Ecco, vorrei cominciare la mia esperienza di padre facendo qualcosa di buono per qualcun altro –
– Però, secondo alcuni, l’egoismo sta proprio nel mettere un bambino o una bambina nella condizione di avere una famiglia senza mamma e papà – a volte detesto fare interviste, mi tocca dire delle cose stupide per fare da pungolo ai miei interlocutori.
– Io questo problema non lo capisco – dice Leonel – mi sembra un non-problema – chiude. Leonel mi sembra una di quelle persone il cui essere di poche parole possa essere scambiato per insicurezza, ma che appena apre bocca fuga ogni dubbio in merito alla sua solidità interiore.
– Non penso i bambini soffrano la mancanza di mamma, ognuno ha la sua normalità. Mi spingo a dire che poi… Che cosa vuol dire la mamma? Senza negare la biologia, naturalmente, mi sembra che in questa società semplicemente mamma significa figura accudente e papà significa figura autoritaria. Io penso che a un figlio serva amore ed equilibrio –
– D’Accordo – li pungolo ancora un po’ – questo per quanto riguarda la gestione interna della famiglia, diciamo. Ma per quanto riguarda lo stigma sociale a cui potrebbe andare in contro il figlio o la figlia di una coppia omosessuale? –
Mirko tira fuori un ghigno che gli ho visto in scena, immagino sia il suo ghigno battagliero – Guarda, già mi vedo a organizzare spettacoli di sensibilizzazione per tutta la scuola, anche prima che lui o lei si iscriva. Preparerei attivamente il terreno perché l’ambiente fosse accogliente, parlerei con gli insegnanti, con gli altri genitori. Cose del genere –
– Torniamo sul tema della rappresentazione e dell’immagine di sé stessi allora – propongo – Di solito chi argomenta contro l’adozione omosessuale, parla del benessere dei bambini, dei possibili traumi che potrebbero derivare dall’assenza di due figure genitoriali di genere diverso. Eppure, ci sono tante famiglie, anche nel mondo eterosessuale, che per varie ragioni non sono composte da mamma, papà e prole. A voi è mai capitato che la vostra omosessualità fosse raccontata da altri come una forma di reazione a qualche tipo di trauma? Insomma, – provo a semplificare – vi hanno mai detto cose tipo “sei gay per reazione a questa o quell’atra cosa che ti è successa nella vita?” –
– Certo, sono cose che si sentono dire con una certa frequenza. Tipo: “la mamma era appiccicosa e gli ha fatto odiare le donne”; oppure “è cresciuto con il padre e allora sa amare solo i maschi”. Teorie affascinanti ma correlazioni inesistenti. La domanda è sbagliata alla base: perché siamo quello che siamo non è importante –
– Però è nella natura umana interrogarsi. La domanda, giusta o sbagliata che sia, ve la siete posta? –
– Certo – risponde Mirko – ed è vero quello che dici: è nella natura umana interrogarsi. La teoria che mi convince di più è quella secondo cui tutti nasciamo con una potenzialità variabile tra l’etero e l’omosessualità. Poi le nostre esperienze ci fanno andare più da una parte o dall’altra. Quello che volevo dire con “la domanda è sbagliata” è che di solito ce la si pone in maniera colpevolizzante, mentre tutto quello che siamo deriva da qualcosa che ci è successo e non c’è niente di male. Soprattutto, un conto è porsi questa domanda per conoscere meglio se’ stessi, un conto è porsela sugli altri per giudicare o censurare quello che sono –
Si sta facendo tardi. I ragazzi mi avevano detto a inizio telefonata che sarebbero andati a mangiare fuori, e in effetti è già ora di cena.
– Andiamo nella pizzeria più buona di Milano – mi dicono quando chiedo loro dove sono diretti. Poi viene fuori che questa pizzeria sta a Pero, fuori città, così li prendo un po’ in giro ricordando i miei tempi di studentessa modaiola nella città meneghina.
– Prima di lasciarci dammi un’ultima battuta, Leonel. Che ne pensi tu? Omosessuali si nasce o si diventa? –
– Io ci ho pensato tante volte – dice – mi sono chiesto se c’era una ragione. Guardavo alla mia storia e a quella della mia famiglia. Ho avuto un padre e una madre, nessun trauma particolare… Secondo me gay si nasce, io lo sono sempre stato, da che ero piccolo tutto qua –
E di nuovo la sua autorevolezza emerge nel suo essere di poche parole.
I was born this way – recita una famosa canzone – tutto qua – aggiunge semplicemente Leonel.