Un’aurea premessa firmata da Alberto Savinio ci introduce ai venti sonetti di un coltissimo poeta garibaldino, nato a Itaca e morto in battaglia a Driskos, dal nome Lorenzo Mavilis. I testi, pubblicati nel 1960, a ricordo del primo centenario dalla sua nascita (1860-1912), con la cura di Vanni Scheiwiller e la traduzione di Bruno Lavagnini, ci offrono la voce di un poeta cui la rivista letteraria ateniese “Ellenikè demiurghia” aveva dedicato il fascicolo n. 91.
Savinio dà inizio alla sua presentazione col citare il periodico di Atene (per altro sua città natale) per elogiare la parola ‘demiurghia’: “Confortante parola – afferma – la parola demiurghia. Designa le creazioni dell’uomo, o anche di un dio che si fa uomo per creare quaggiù, lasciando sottinteso che creazioni più alte le fanno gli dèi. Ma gli dèi chi li crea?” E Franco Pappalardo La Rosa, in una centrata analisi condotta sulla recente raccolta di versi di Antonio Di Mauro (classe 1950), dal titolo Società Italiana Spiriti, (Stampa, Azzano 2020) ribadisce per tale suo ordito come sia «la demiurgia della parola a dominare in assoluto, a presiedere alla creazione o alla ripetizione, dacché il nulla è una voragine che ingoia e disintegra, nella quale non scorre neppure il tempo, che è la dinamica della Storia o delle piccole avventure umane».
Su tale lemma, nell’estensione che dilava dai destini collettivi al proprio vissuto, fino ai processi di rammemorazione e ricostruzione di un’era arcaica coincidente con il mondo dell’infanzia e della prima formazione intellettuale, ecco che le cose e le immagini – veri e propri oggetti di speculazione e analisi per Walter Benjamin – sono recuperate da Antonio per essere restituite nella pedana del presente accuratamente vestite di una nuova armonia vitale.
Nei compatti segmenti che vanno da “Storie dell’età dell’oro” a “Frammenti di lettere a familiari e amici”, ordinati in quella “struttura poematica” rilevata in prefazione da Maurizio Cucchi che cura per ‘la collana’ questo numero 62, (pp. 101, € 14,00), si dipana un proficuo rapporto, quel compromesso denunciato da Montale tra il ‘particolare’ e l’‘universale’, nel momento in cui questa poetica, bagnandosi nella tensione del quotidiano, tende ad asciugarsi al vento delle idealità, ed è capace di determinare un incremento di peso qualitativo delle materie facenti parte del proprio esistere ampiamente riverberato nella stesura dei versi.
Un’operazione di “restituzione di esistenza”, dunque, proprio nel continuo saldare e ri-assemblare i frequenti cortocircuiti semantici, nell’elaborare una coppa sempre più colma di secreti in cui navigano le ibernate memorie visive. In tal modo, la riconsegna delle ‘esistenze’ attraverso le ‘parole’ fa emergere, di là dei volti, suoni, cromatismi, architetture, il tutto, nella progressione apparentemente quieta dei versi: «È rimasto come un aroma…» – scrive ricordando la S.I.S. (‘Società Italiana Spiriti’), azienda del Continente (così era definito negli anni Cinquanta il Nord dell’Italia) che manteneva rapporti commerciali con una distilleria siciliana, cui era coinvolta la famiglia di Antonio.
E l’aroma, nel nebuloso riferimento del ricordo olfattivo, si va rarefacendo per consolidarsi nell’acre vapore della «fermentazione || della vinaccia pressata nelle profonde vasche» la quale “ha prodotto ancora un vinello assai spiritoso | perciò verrà speciale la distillazione… | dà voce sommessa al silenzio della notte | il brusio del bruciatore a nafta che fa | ribollire la grande caldaia…”. Versi cadenzati in veri e propri coaguli, pronti a completare tessere musive di reminiscenze, e ancora, le cose che sono, ricordando la lucida osservazione di Adelchi Baratono, “esse stesse esistenza”; tempi qui staccati, setacciati, da tinnanti puntini di sospensione: un amplificare i campi semantici, un creare accelerazioni cognitive attraverso l’enjambement, un magnificare la scrittura investita dal rinnovato gettito di luce che soltanto la poesia sembra esser capace di generare.
In Antonio Di Mauro si avverte come le parole tentino il distacco dal loro doglioso mantello della memoria; esse si comportano quali tenaci guardiani simili a quei “ripostigli” svelati dagli scavi archeologici: materiali recuperati, rivivificati, ri-creati e lanciati, con mezzi e finalità propri, sul selciato empatico del futuro. Non a caso tra questi arcaici edifici, sormontati da torri distillanti, ora emergono voci simili a quelle «anime adeguate a questi luoghi» nel modo in cui le definisce Lucio Piccolo per il suo palermitano “Oratorio di Valverde”. Di Mauro, che richiama a sé queste voci dal vortice di un tempo inequivocabilmente trascorso, si chiede: “Ma dove siete, voi | anime ancora dolenti, dove siete | ombre vaganti che avverto presenti | spiriti penitenti? siete forse | spiriti delle acque, fremito | di bosco e vorreste essere | alito di casa?” E quei muri, quelle stanze, dov’è stata sostituita anche la carta da parati, sembra che abbiano lasciato, forse per sempre, lo spazio di un vissuto in cui gli oggetti si son trasferiti in altra stringa d’universo, mentre si avverte, oppressi da un vago timore, che “il male | era entrato a passi felpati per colpire, | per annientare…”.
Non è peregrino, durante la lettura a voce bassa, il rilevare assonanze con la prosa lirica: un atteggiamento da prosimetro, da poesia in prosa, un sondare occasionalmente quei limiti espressivi che per Donato Valli possono anche agire da «genere di confine», in continua e«camaleontica» evoluzione; un sorta di «metagenere», per Moliterni (2019), sospeso “tra la crisi della lirica tradizionalmente intesa” e altre morfologie espressive.
Da qui le possibili quanto fertili ‘impurità’ d’ibridazione modellano l’attuale sentire di Antonio, il carico della stessa autobiografia collocata nella direzione di quel composto d’imprecisa purità del sistema prosa/poesia in cui il tocco dell’emozione, a contatto con la poesia, ribadisce come questa, pur essendo per Alfred E. Housman quella “Secrezione impura sì, ma come la perla per l’ostrica”, renda attuali queste parole consegnateci dal filologo classico le quali riposano, ben vigili, nel cuore del suo The Name and Nature of Poetry (1933). In esse vive, in un certo senso, il brillio dell’aragonite; è la sua ‘impurità’, infatti, ad aggiungere ulteriore luminescenza alla vita dei sentimenti.
In quei tempi marcati dal 1958 per poi essere sdoganati alla fine degli anni ‘Sessanta, oggi ritroviamo, nell’intensità di questa Raccolta, parole ed emozioni distillate, quindi purificate e possiamo finalmente misurarle: ne risentiamo allora l’«ardore del luglio in fiamme», le ‘perfette sfere delle angurie’, lo ‘stravaso di febbre nelle notti brucianti», le percezioni, i contatti, le epifanie; per Di Mauro tutto ciò è una «materia rappresa fermentata | bene nella lunga giacenza | di memoria. Ne verrà puro spirito | che profuma di anime, le nostre, | ottimo per gli ottimi liquori».
Quali fragranze, ci chiediamo, son pronte a migliorare le anime che ci vivono? Ad esse rispondono le lettere famigliari alla ricerca dello scioglimento delle pene, degli “affetti acerbi” tra le fiamme cartacee di coriandoli; rispondono le stanze umbratili del vecchio saggio assorto in una “luna di ghiaccio” o il corpo gelido in un “lastrone di tufo intagliato”; rispondono gli sguardi tra le “limpidezze ottobrine” e la visione dei Tre Re che inseguono ancora l’incerta scia della cometa lungo i camminamenti di Orione, o il lenimento gioioso per irrorare la “cripta del cuore”, o il sogno insistito delle radici, o la paura delle tante “stanze della tortura”.
Ma una risposta Di Mauro la consegna proprio con la sua dedica posta in esergo al volume, in quell’attingere ai sentimenti ovidiani con le figure di ‘Filemone e Bauci’: quindi alla tenacia dell’amore coniugale, alla commistione di radici e frutti che ritroviamo simbolicamente nella quercia e nel tiglio fusi in un unico tronco, nel sentimento della dedizione verso il prossimo, nell’addomesticamento in cui gli dèi, – quasi a colmare l’interrogativo di Savinio, – qualche volta sono generati dalla fruttuosa speranza dei poeti. Versi, dunque, ci sono consegnati dalla maturità espressiva di Antonio di Mauro per il quale va accettato il suggerimento di Jabès che invita a leggere le parole non come semplice inchiostro disperso sul foglio, ma un «essere se stessi» – tutto se stessi – in “quel nero nel quale si mettono le parole”. È, d’altronde, quel medesimo nero che cola, a volte drammaticamente, nel filamentoso versamento informale di Giorgio Vicentini (non a caso classe 1951); esso icasticamente lega questi versi nel composto introibo della copertina, ma in alto, proprio in alto, quasi “in cima alla torre di un alambicco”.
Antonio Di Mauro: ‘Due testi’
(Epilogo)
Sul lastrone di tufo intagliato deposto
il corpo non è ancora rigido, eppure
già nell’inerzia inanimata invaso in parte
dal gelido biancore che sbiadisce i lividi
della carne martoriata cicatrizza le ferite
confonde le rigature di sangue al circuito
venoso…
appare mosso il disegno
delle membra nelle forme marcate
che resistono per un’ultima prospettiva
prima di precipitare nell’appiattimento…
la pietà, la pietà l’ha ricomposto alla meglio
l’ha reso materia disponibile sul bancone
all’obitorio, sul tavolo di anatomia…
l’ha consegnato all’oscurità senza tempo
compiuto ogni gesto nella certezza
del distacco, persino il sigillo impresso
sulla pietra tombale a separare un altrove
di solitudine la più grande, cominciata
nell’orto dell’abbandono infinita solitudine.
È il corpo della vittima, tutte le vittime
corpo pacificato ora che il sacrificio
necessario è stato consumato, lavata
ogni macchia di natura, espiata ogni colpa
sopraggiunta, fatta giusta ingiustizia
ogni nascita a questo fine segnata
nel sangue o solo nel patimento
perché il dolore trovi le sue ragioni…
[Da: Pietà del figlio, «Almanacco dello Specchio», Mondadori, Milano 2008]
Davvero un piccolo universo dove
Davvero un piccolo universo dove
si consumavano minime vicende
tutta una sequenza legata al ritmo
del ciclo produttivo, una vera epopea
di piccoli eroi che in quel mondo ebbero
alcuni battesimo di vita, microstorie
nel tempo coagulate in squarci esemplari…
l’odore asprigno della vinaccia e quello
acido del sudore dei corpi nella fatica
i mezzi ricolmi di sacchi gonfi
pesanti…
[Da: Società Italiana Spiriti, Stampa, Azzate (VA) 2020]
Antonio Di Mauro (Aci Bonaccorsi-Catania 1950), esordisce con la plaquette Diagramma (Todariana Editrice 1972), per poi confezionare la raccolta Quartiere d’inverno (Amadeus, 1986), e, nel 2003, per Jaca Book, Acque del fondale. Ancora poesie in «Almanacco dello Specchio» n. 14 (Mondadori, Milano 1993), e Pietà del figlio «Almanacco dello Specchio» (ivi, 2008). Suoi testi poetici e interventi sono apparsi in riviste: «Poesia», «Nuovi Argomenti», «Gradiva», «Testuale», «I quaderni del Battello Ebbro», «Plumelia-Almanacco di cultura/e» e in testi antologici: da Approdi. Poeti del Mediterraneo (Marzorati, 1996) a Sicilia, poesia dei mille anni (Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2001). Collabora alle pagine culturali del quotidiano «La Sicilia».