L’informazione vive un momento di grande difficoltà. Lontani i numeri degli anni Ottanta, la carta stampata vende sempre meno e le edizioni on line non decollano.
Presidente Giulietti gli editori cercano di limitare i danni tagliando le spese: licenziamenti, prepensionamenti, scarse assunzioni, contratti a termine, collaborazioni giornalistiche pagate 10 euro a pezzo.
L’informazione vive ovunque una crisi profonda che ha ragioni molteplici: l’irrompere di nuove forme di comunicazione, la crisi della democrazia rappresentativa, il tentativo di eliminare ogni forma di mediazione per stabilire una connessione diretta tra i capi e la “folla”, il fastidio crescente dei regimi verso qualsiasi forma di controllo, a cominciare dalle inchieste e dalle domande scomode, quelle che gettano una luce nei territori dominati dal malaffare, dalle illegalità dalle mafie di ogni natura e colore.
Si aggiunga a questo l’incapacità di affrontare la crisi elaborando, anche in questo settore, politiche industriali che sappiano andare oltre la logica delle mance e dei contributi a pioggia.
Nel 1981 di fronte alla crisi che stava devastando l’editoria, travolta dallo scandalo della loggia P2, ma ancor più dai cambiamenti strutturali in atto, il legislatore, attraverso un serrato confronto con le parti sociali, elaborò la legge di riforma 416 del 1981 che consentì di superare l’emergenza e di sostenere il riammodernamento dei sistemi editoriali.
Da allora, salvo alcuni aggiustamenti, i governi e la politica non hanno ripercorso quella strada, nonostante i richiami della Federazione della stampa e degli editori più sensibili.
Nei giorni scorsi, per l’ennesima volta il presidente Mattarella ha invitato il Parlamento ad elaborare un piano di riforma all’altezza della crisi, ma, ad oggi, non sembra che le sue parole siano state recepite.
Ovviamente ne risente anche la qualità del giornalismo proposto. Sempre meno inchieste e sempre più gossip…
Il gossip, per usare una espressione di altre stagioni, è funzionale alla distrazione di massa, al posto delle inchieste la moltiplicazione dei salotti dove la finzione sostituisce la realtà.
Naturalmente non bisogna generalizzare, ci sono trasmissioni di varietà e intrattenimento condotte con garbo ed ironia, capaci di aprirsi a temi sociali e di portare nelle case argomenti che, altrimenti, resterebbero confinati in spazi residuali e di nicchia. Sarebbe un errore, per fare un solo esempio, sottovalutare il ruolo svolto da alcune di queste trasmissioni nella gestione della pandemia.
Non vi è dubbio, tuttavia che le politiche editoriali, persino quelle del servizio pubblico, non solo in Italia, hanno portato alla riduzione del giornalismo di inchiesta, considerato costoso e, soprattutto, fastidioso perché entra in collisione con i poteri politici, economici, finanziari. Meglio, molto meglio, confezionare, con poche persone, pagine dove è sempre più difficile distinguere tra giornalismo e pubblicità. Naturalmente questa scelta non ha prodotto risultati, anzi ha acuito la crisi di credibilità e persino di vendita.
Non casualmente alcuni editori americani hanno deciso di fare inversioni di marcia, di promuovere i consorzi di inchiesta e di investire sulla qualità che, ovviamente discende direttamente dal grado di libertà e di autonomia che l’editore intende consentire alle sue redazioni.
Vorrei, infine, segnalare che, anche in Italia cresce il numero di siti, di blog, spesso gestiti da colleghe e colleghi, precari, che si dedicano alle inchieste, illuminano i territori occupati dai poteri criminali, sfidano minacce e querele bavaglio. Una vera riforma dell’editoria dovrebbe partire da queste esperienze e Lo Stato dovrebbe cominciare a punire chi “molesta” il diritto di cronaca e a tutelare chi “onora” l’articolo 21 della Costituzione.
Paradossalmente aumentano le università private che offrono corsi di laurea in scienze della comunicazione creando grandi aspettative tra i giovani, mentre diminuiscono i posti di lavoro e dunque le assunzioni
La moltiplicazione di corsi privati rischia di alimentare le fabbriche delle illusioni.
Spetta all’ordine dei giornalisti rafforzare il percorso pubblico e chiedere al Governo e al Parlamento di procedere a quella riforma dell’ordine e dell’accesso che resta ancora fermo ai principi definiti dalla legge del 1963. In questi giorni si parla molto di “transizione al digitale” e di alfabetizzazione, ma nei progetti non si fa riferimento al mondo dell’informazione. Al contrario bisognerebbe incentivare, anche nel settore dell’editoria, la promozione della transizione, la formazione dei giornalisti, e la definizione di nuovi profili professionali legati all’innovazione e alle trasformazioni in atto.
Questo percorso ha bisogno di un forte legame con il sistema scolastico e universitario, incentivando quei corsi pubblici o convenzionati sulla base di una certificazione più stringente, senza mai dimenticare che la professione del giornalista deve rispondere anche a criteri deontologici ed etici, espressamente richiamati nelle carte dei doveri e più volte definiti anche nelle sentenze della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.
Una situazione che rischia di precipitare in tempi brevissimi ma di cui il Governo non pare si stia occupando…
Basterebbe ricordare che la legge di riforma dell’editoria risale al 1981, da allora solo interventi parziali, senza un disegno organico e senza l’ambizione
di accompagnare la trasformazione tecnologica e di considerare davvero l’informazione come un bene pubblico, tutelato dalla Costituzione.
Tutti i provvedimenti annunciati, nel mutare dei governi e delle maggioranze, sono rimasti nei cassetti. La legge sull’equo compenso, approvata nel 2011 e che avrebbe dovuto riconoscere una “equa mercede” alle migliaia di giornalisti e giornalisti precari, attualmente pagati qualche euro a pezzo, non è mai diventata operativa, stante l’opposizione degli editori e il disinteresse della politica. Le norme per contrastare le cosiddette querele bavaglio, quelle che vengono scagliate contro i cronisti che indagano su malaffare e corruzione, sono state presentate nel 2003 e mai portate in aula in Parlamento per la definitiva approvazione. Attualmente riposano nei cassetti del Senato.
La Corte costituzionale è stata costretta ad intervenire per abrogare, almeno in parte, le disposizioni che ancora prevedono il carcere per il reato di diffamazione. Ora, forse, con grande ritardo, dovrà intervenire il legislatore. Le norme su conflitto di interessi e riforma della Rai vengono rinviate di legislatura in legislatura, di maggioranza in maggioranza. La riforma dell’INPGI, degli ammortizzatori sociali, degli stati di crisi aziendale non arriva mai a conclusione, si preferisce l’ipotesi del commissariamento a qualsiasi organico tentativo di riforma che tuteli l’autonomia dell’istituto e della professione.
Sono queste, e non tutte, alcune delle ragioni che hanno portato le agenzie internazionali ad assegnare all’Italia un poco onorevole quarantesimo posto nei rapporti internazionali in materia di libertà di informazione. Si aggiunga a questo quadro che l’Italia detiene il poco invidiabile primato di croniste e cronisti “sotto scorta”, sono ormai oltre 20, nel mirino di mafie, squadrismi, malaffare, dal governo Draghi che gode di ampia e inedita maggioranza ci attendiamo, quanto meno, che adegui le normative italiane a quelle comunitarie e apra finalmente un confronto su tutte le questioni irrisolte che sono state, più volte, richiamate dal Presidente Mattarella.
Una crisi, presidente Giulietti, che però non riguarda solamente l’Italia. In alcuni paesi, anche europei, fare informazione indipendente è sempre più difficile e pericoloso.
Mafie, regimi di ogni colore, malaffare odiano le luci dell’informazione e, per questo, ovunque nel mondo si intensificano le minacce contro i cronisti. Messico, Colombia, Cina, Turchia, Iran, Egitto, Siria, per citarne solo alcuni paesi, guidano le classifiche dei paesi con il più alto numero di cronisti minacciati, imprigionati, assassinati.
Nella stessa Unione Europea aumentano gli episodi di intolleranza, basterebbe ricordare l’assassinio di Daphne Caruana Galizia a Malta, quello di Jan Kuciak in Slovacchia, la spietata esecuzione di Peter De Vries in Olanda o quella di Giorgio Karaivaz in Grecia. Episodi che segnano un crescendo di atti di odio verso la libertà di informazione, ma anche verso il diritto ad essere informata di ogni comunità.
Chi colpisce il cronista ha anche l’obiettivo di oscurare la pubblica opinione e di consentire al malaffare di operare lontano dalle luci dei controlli di legalità. Che la situazione sia allarmante è dimostrato dalle ripetute iniziative delle stesse istituzioni comunitarie.
In queste settimane sono in discussione mozioni di indirizzo relative alla tutela dei cronisti minacciati, al contrasto delle querele bavaglio, alle misure di prevenzione e di sicurezza per impedire che giornali e giornalisti possano diventare un bersaglio dei messaggi e delle azioni di odio, dentro e fuori la rete. Il consiglio di Europa ha allestito una piattaforma per segnalare le situazioni di allarme e di rischio. L’Italia, unico paese europeo, ha istituito, presso il ministero dell’Interno, un osservatorio per monitorare le minacce e decidere eventuali misure di tutela, sino alla concessione della scorta per comprovati motivi di rischio. La situazione di allarme e di crisi, dunque, non riguarda solo l’Italia, la consapevolezza istituzionale e politica è cresciuta, quello che manca ancora è la capacità di trasformare i buoni propositi in legge e cominciare davvero a considerare la libertà di informazione un bene pubblico essenziale, senza il quale non può vivere l’ordinamento democratico, e non solo in Italia, ogni riferimento al post Trump e al tentato colpo di stato non è affatto casuale.
Chi è Giuseppe Giulietti
Laureato in lettere
Diventato giornalista alla Rai con concorso nazionale del 1979
Segretario dell’Usigrai dall’89 al 92
Deputato dal 1994 al 2013
Tra i fondatori di Art. 21 liberi di….
Eletto presidente della FNSI nel 2015, riconfermato nel 2019 per il quadriennio 2019/2023.