Da alcuni anni, il primo ministro ungherese Viktor Orbán è diventato l’incubo delle cancellerie europee e non solo europee. Che sia un provocatore, un guastafeste, per temperamento e impostazione ideologica, sembra difficile negarlo. Più che alla signora Thatcher, che sapeva farsi valere ma era sempre pronta a compiere tatticamente un passo indietro, “Viktator” o “Erdorban”, secondo i suoi non troppo lusinghieri soprannomi, sembra l’affossatore, il distruttore della fragile unità europea che si sta ricostruendo all’ombra della pandemia. Ma è lecito considerarlo così? Cerchiamo di rispondervi, attenendoci ai fatti nella misura del possibile.
Orbán è, prima di tutto, una meteora politica. Nato nel 1963 in una famiglia della piccola borghesia rurale calvinista, ha mosso i primi passi nelle organizzazioni giovanili del PC, anche perché (si è giustificato poi) non vi era allora alternativa per un giovane ambizioso che volesse affacciarsi alla scena pubblica. Già intorno alla caduta del muro di Berlino, aderisce alla Fidesz, una formazione nazionalista e anticomunista ben vista a Washington, che si richiama ai valori della rivoluzione fallita del 1956. Qualità precoci di militante e organizzatore gli consentono di salire rapidamente i gradini della vita politica, fino a diventare primo ministro di una coalizione di centro-destra a soli 35 anni, dal 1998 al 2002.
Durante quel primo mandato, Orbán comincia a suscitare forti polemiche, soprattutto in materia di libertà e diritti civili, ma ottiene alcuni risultati importanti, come l’ingresso dell’Ungheria nella NATO e una relativa normalizzazione dei rapporti con le vicine Romania e Slovacchia in tema di minoranze: un problema che l’Europa centro-orientale si porta dietro sin dai (pessimi) trattati di pace della Grande guerra. Nel frattempo, l’uomo ha subito anche una certa trasformazione fisica: da intellettuale magro, levigato, quasi ascetico, è diventato un tribuno rotondo nel fisico e nel verbo, che utilizza un linguaggio pittoresco, a volte scurrile, per enfatizzare le proprie origini popolari.
Passato poi all’opposizione per quasi un decennio, Orbán tornerà al potere nel 2010 con una larga maggioranza elettorale, sull’onda di alcuni scandali che hanno indebolito il governo socialdemocratico. Da notare che nel 2003-2004, l’Ungheria è entrata nell’Unione europea, a seguito di un referendum che ha ottenuto l’adesione convinta anche del centrodestra. Tant’è vero che Orbán stesso si troverà a presiedere a turno il Consiglio dell’UE nel primo semestre del 2011. Nel frattempo, la “magiarizzazione” di cui egli è diventato un esplicito assertore, produce una serie di tensioni con i paesi limitrofi e con Bruxelles. Orbán risponde allora, non senza un certo imbarazzo degli Stati Uniti, con un clamoroso avvicinamento alla Russia di Putin e alla Bielorussia di Lukashenko, sostenendoli nel confronto con l’Ucraina ed opponendosi alle sanzioni decretate dall’UE. Sempre più isolato dai partner comunitari ma forte di un costante consenso popolare, vince largamente le elezioni del 2014 e del 2018.
Questi, schematicamente, i fatti sino ad oggi e, volendo restare nelle dimensioni di un articolo, non possiamo interrogarci sulle motivazioni che hanno consentito a Orbán di ottenere un tale consenso democratico. Gli ungheresi sono una nazione antica, tenace e fiera, che non si è mai confusa nella grande famiglia slava, consapevole e gelosa delle proprie tradizioni di autogoverno, sin da quando riuscì a imporre a Vienna la creazione della “duplice monarchia”, nel 1867. Trascurare questi dati della storia (così come fu trascurata la forza dell’identità serba durante le sciagurate guerre nella ex Jugoslavia) significa non capire né i popoli né i governanti che si scelgono e ridurre lo spazio di dialogo, invece di preservarlo e accrescerlo.
Arriviamo ad oggi. E qui, prima di tornare all’Europa, il lettore mi consentirà un excursus relativo alla personalità di Orbán quale mi accadde di osservarla, indirettamente, in un altro consesso internazionale.
Il Consiglio dei Diritti Umani (OHCHR), formalmente istituito con sede a Ginevra negli anni 1980, è una delle più recenti nonché delle più sensibili organizzazioni delle Nazioni Unite. Il suo mandato discende in linea diretta dai valori e dai principi della Carta onusiana; tuttavia, l’applicazione pratica delle sue direttive ha suscitato nel corso degli anni non pochi accesi contrasti. Volta per volta, non pochi stati membri che vanno dagli Stati Uniti e Israele fino, sul fronte opposto, a Iran, Cuba, Siria, Venezuela o Corea del Nord ne hanno contestato norme e procedure.
Determinante, per raggiungere il necessario consenso dell’assemblea, è quindi il ruolo di facilitatore dell’Alto Commissario, una personalità super partes designata dal segretario generale delle Nazioni Unite. Quando arrivai a Ginevra, nel 2013, tale incarico era svolto da una magistrata sudafricana di etnia indiana e di modestissime origini, già prima donna membro della Corte Suprema nel suo paese, che spiccava per autorevolezza, garbo e prudenza. Fu per me un’esperienza gratificante e istruttiva poter collaborare con lei in qualità di vice presidente annuale del Consiglio per il gruppo europeo-occidentale (WUEOG). Ebbi modo di apprezzarne particolarmente l’equilibrio e l’imparzialità, in un’infuocata sessione nel corso della quale i delegati indiano e sudafricano (quindi a lei, oggettivamente, vicini) presentarono un’insidiosa mozione di condanna dei marò che, a seguito della nostra obiezione immediatamente accolta, fu derubricata a semplice dichiarazione di parte. Osservo (magari vi tornerò in un’altra occasione) che in quella vicenda la solidarietà comunitaria nei nostri confronti fu del tutto evanescente.
Il suo successore ne rappresentava l’opposto da ogni punto di vista. Si trattava di un diplomatico e principe giordano di madre svedese e con doppia nazionalità americana, di forte personalità e vasta, anche inconsueta cultura: conosceva ad esempio i radicali italiani e volle ricevere cordialmente Marco Pannella che gli presentai. Emerse ben presto, tuttavia, che interpretava il suo ruolo più da protagonista che da intermediario. Amava i riflettori quanto il precedente li evitava, forse, come sostenevano alcuni, per compensare il fatto di essere tagliato fuori dalla successione al trono in patria.
Sempre sorridente ma algido e patrizio, era poco propenso a discutere con i rappresentanti nazionali, tantomeno ad ascoltarli. Alle regole flautate della quiet diplomacy, preferiva contrapporre interventi forse ispirati ma al limite delle sue competenze istituzionali. Memorabile rimane la polemica con Donald Trump, allora candidato alle elezioni presidenziali americane, da lui pubblicamente bollato come “demagogo” e “razzista”. Era inevitabile che Orbán finisse nel mirino, dopo un rapporto che elencava una serie di omissioni del governo di Budapest in materia di rispetto delle minoranze, diniego di accoglienza a migranti e rifugiati e opposizione alle tematiche di genere.
Il referto era già duro ed esplicito in sé ma l’alto commissario rincarò la dose, chiamando – sempre pubblicamente – il primo ministro a giustificarsi. Regalo più grande a Orbán non si poteva fare, come mi sussurrò l’atterrita collega ungherese. Costui rispose a stretto giro, definendo il rapporto poco più che “carta straccia” e ribadendo sostanzialmente che «un capo del governo risponde solo al popolo che lo ha liberamente eletto». Tutti speravamo, durante le consuete riunioni comunitarie, che la cosa finisse lì. Ma l’alto commissario non perse l’occasione di rilasciare l’ennesimo comunicato in forma di lettera aperta in cui il suo mancato interlocutore era descritto in termini che non credo di aver mai letto in un documento ufficiale in 42 anni di carriera. Immagino che i testi siano disponibili su Internet e si potrà verificare se esagero.
Non mi sentirei in coscienza di escludere che l’alto commissario avesse impostato l’operazione, e altre del genere, per rafforzare la sua mano, soprattutto presso le ONG più influenti (che al Consiglio hanno status di osservatori) in vista di una conferma nel ruolo. Se fu così, giocò male le proprie carte perché poco dopo Antonio Guterres, eletto consensualmente segretario generale delle Nazioni Unite, e uno dei più raffinati e intelligenti esponenti di quiet diplomacy che abbia mai incontrato, preferì non rinnovargli il mandato. Il principe (poco) diplomatico uscì di scena sbattendo la porta, ed oggi insegna in un’università americana. Orbán è sempre al suo posto.
Torniamo al contesto europeo. In che misura lo stadio raggiunto attualmente dalla complessa, stratificata, talvolta farraginosa normativa comunitaria consente al Consiglio, alla Commissione e agli stati membri di intervenire nella legislazione nazionale dei singoli partner? La questione supera largamente, sul piano giuridico, le competenze di chi scrive. In linea di principio, si può tuttavia osservare che gli assertori di un’Europa federalista tendono ad ampliare la sfera di tale intervento. Il problema è, tuttavia, che a quest’Europa federalista non siamo ancora giunti. Ed anche ciò che i più recenti trattati costituzionali sembravano non contemplare né autorizzare, ossia l’uscita unilaterale di un membro dall’Unione, si è verificato con la Brexit del Regno Unito.
La politica si basa sulle leggi ma ancor più, piaccia o non piaccia, sui fatti, e soprattutto sui rapporti di forze. Il caso forse più clamoroso, oggi quasi dimenticato, di ingerenza “virtuosa” (o comunque la si voglia chiamare) si verificò nel gennaio 2000: sembra lontano ma è ieri. Il presidente francese Jacques Chirac richiese (o meglio, intimò) al presidente di turno dell’Unione, che era guarda caso Antonio Guterres, allora primo ministro portoghese, l’applicazione di sanzioni europee contro l’Austria, a seguito della vittoria elettorale della coalizione di centro-destra guidata dal partito della libertà (FPÖ) del governatore della Carinzia, Jörg Haider. Il gallico furore cadde come un fulmine a ciel sereno: ricordo ancora lo sgomento ai piani nobili della Farnesina. D’altro canto Haider, forse consapevole delle tensioni internazionali (Israele lo aveva già dichiarato persona non grata e Washington si accingeva a farlo) o preferendo mantenere un ruolo di battitore libero, lasciò l’incarico di cancelliere al partner cristiano-popolare Wolfgang Schüssel ed evitò di entrare nel gabinetto. La questione poteva quindi dirsi risolta. Jamais, ô grand jamais! Chirac tenne duro e gli allora quattordici stati dell’Unione (meno ovviamente l’Austria, che ne era membro dal 1995) accettarono con scarso entusiasmo di applicare sanzioni largamente simboliche, la più esplicita delle quali fu il veto alla partecipazione degli esponenti governativi di Vienna ai consessi europei.
Non oso immaginare allo stracciamento di vesti che ciò avrebbe comportato in Italia. Ma gli austriaci hanno i nervi saldi: basti pensare a come avevano incassato pochi anni prima il caso Waldheim. Fecero quel che c’era di meglio da fare, ossia finta di nulla, aspettando che passasse la nottata. E così fu nel giro di alcuni mesi, allorché il ministro degli Esteri francesi abbracciò platealmente la collega austriaca, riammessa a tavola. Insomma, tutto finì a Mozartkugeln und Glühwein, versione asburgica di tarallucci e vino.
Il prestigio e la coesione dell’Europa ne riuscirono, rafforzati? Difficile affermarlo, tanto più che fu subito evidente a tutti che a Chirac dell’Austria e del “nazista” Haider importava quanto della regina di Saba. A muoverlo erano essenzialmente due considerazioni: 1) dimostrare che in un’Europa, orfana di Schmidt e Kohl e senza ancora das Mädchen, la “ragazza” Merkel all’orizzonte, a comandare era la Francia, cioè lui; 2) mettere in sordina, specie agli occhi della potente comunità ebraica francese, la linea filoaraba (e filoirachena) che poteva nuocergli in vista di una terza elezione. Come si ricorderà, vinse le presidenziali nel 2002 ma, con la seconda guerra dell’Irak, l’Europa si spaccò come una mela. Blair, Aznar e un più riluttante Berlusconi dalla parte di Bush; Schröder e quasi tutti gli altri europei (oltre a Putin e alla Cina), dalla parte di Chirac.
L’episodio è, ripeto, ormai lontano ma pone interrogativi sempre attuali. In che misura l’UE può intervenire nella politica interna di uno stato membro? La risposta sarebbe (relativamente) semplice nel caso, puramente teorico per fortuna, di un golpe o colpo di stato. Ma né Haider né Orbán si sono imposti, a quanto è dato saperne, in competizioni segnate da atti di violenza e intimidazioni, da brogli e malversazioni. Non si può considerare la democrazia a corrente alterna, secondo chi vinca e chi perda, a meno di dare ragione all’amara sentenza di Brecht (che però si riferiva alla rivolta popolare di Berlino Est del 1953 contro il regime dittatoriale dell’allora RDT): «Se il popolo ha torto contro i suoi dirigenti, basta che i dirigenti cambino il popolo».
Ed eccoci all’attualità, dopo questa lunga ma forse non superflua premessa. Nel settembre 2018, il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza di due terzi dei votanti una mozione di condanna nei confronti dell’esecutivo ungherese per presunta violazione dello stato di diritto ai sensi degli articoli 7 e, per implicito riferimento, 2 del Trattato (consolidato) dell’Unione Europea. In sostanza, il governo Orbán avrebbe violato, o starebbe violando, alcuni “valori fondamentali” della carta costituzionale dell’UE, che ha natura – è bene sottolinearlo – di trattato internazionale (quindi non federativo), sottoscritto anche dagli stati membri di successiva adesione, come appunto l’Ungheria. È molto? Forse sì ma… non abbastanza. A leggere i sacri testi (Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1 dicembre 2009, e successivi emendamenti) appare chiaro come detti principi abbiano carattere essenzialmente declaratorio o indicativo, altrimenti sarebbe stato impossibile trovare l’unanimità necessaria per adottarli. Ci troviamo quindi in una situazione che appare giuridicamente meno prescrittiva di una legislazione nazionale. Si rischia pertanto di mettere il carro davanti ai buoi. In un’Unione non (ancora) federale, appare tuttora arduo determinare la preminenza del diritto comunitario su quello nazionale in un settore altrettanto arduo da definire come quello dei “valori”.
Oggi Orbán è nuovamente messo sotto accusa – e con lui il governo polacco, che sembra optare adesso per una linea più morbida – dai media, dalle ONG e da diversi partner per la politica anti-immigratoria, le modifiche in senso “autoritario” alla Costituzione nazionale e, da ultimo e soprattutto, una legge sulle tematiche LGBT che ne vieta la “propaganda” o l’insegnamento nei confronti dei minori.
Tredici paesi dell’Unione (tra i quali non figura l’Italia) hanno chiesto l’adozione di sanzioni contro l’Ungheria e la pur cauta presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è spinta a definire pubblicamente “una vergogna” detta legge. Ora, ciascun sistema legale degno di questo nome tutela in misura prioritaria i minori, che sono il settore più vulnerabile di ogni società civile. Ma non entriamo, per carità, in tale dibattito, così come evitiamo di invischiarci nella polemica tra “progressisti” e “oscurantisti” in un settore estremamente fluido come quello dei diritti di genere, dagli aspetti ideologici spesso confusi e confondenti.
Basterà solo ricordare che due leader europei di “estrema destra” di un recente passato, entrambi prematuramente e tragicamente scomparsi, Haider stesso e l’olandese Pim Fortuyn, sono tuttora considerati in certi ambienti come delle icone o addirittura dei martiri della causa gay. Inversamente, chiunque visiti l’Ungheria (e moltissimi sono tra loro i turisti italiani, Covid permettendo) stenterà a considerarla un paese segnato dalla repressione sessuale, anzi. Lo era prima di Orbán e, per quanto ne so, lo rimane tuttora. Leggere Lolita o il Kamasutra a Budapest? Se ne trovano più edizioni (e più varianti) che a Roma, Parigi o Amsterdam.
Tutto ciò autorizza un certo scetticismo, finora (purtroppo) confortato dai fatti, sull’eventualità di “fermare” un personaggio come Orbán in punta di diritto o mediante discutibili sanzioni. E cosa accadrà se domani, ipotesi che non si può più escludere, sovranisti non meno outspoken di Orbán siederanno democraticamente a Roma, Parigi o Berlino? Il fatto che Orbán non sia finora riuscito nel proposito dichiarato di creare un grande partito sovranista europeo, è certo una buona notizia. Ma non basta. Non vedo molti Talleyrand all’orizzonte, ma la formula attribuita al “diavolo zoppo” secondo cui non negoziare è il peggiore dei negoziati, sembra valida come non mai.
La moral suasion è tradizionalmente uno strumento efficace, specie nei confronti del leader di un paese che, a differenza della Gran Bretagna di Brexit, non ha alcuna intenzione di suicidarsi uscendo dall’Unione. Le risorse del Recovery fund post pandemia, da tutti ambite, ungheresi compresi, (anche se Orbán afferma il contrario) costituiscono un altro notevole strumento di pressione. Nel momento in cui scriviamo, il termine per la valutazione della Commissione sul piano ungherese è stato esteso a fine settembre. Orbán ha per ora risposto in termini non dissimili da quelli di sfida con cui si era precedentemente rivolto alla commissione dei Diritti Umani e al Parlamento europeo. Posizione tattica e non definitiva? Lo vedremo. Il confronto è difficile ma l’importante è che non si fermi.
Quindi, per tornare al nostro titolo: l’Europa ha veramente interesse a fare il gioco di Orbán? E poi, chissà di chi altri?