L’Italia, il mio straordinario paese, non cessa di stupirmi. Non solo abbiamo scoperto di avere migliaia e migliaia di virologi, ma abbiamo visto che quasi tutti i giornalisti sono esperti di Afghanistan, come quasi tutti i diplomatici. Molti ne sapranno davvero qualcosa, ma purtroppo l’overdose informativa ci ha fatto piombare, come sempre, in uno stagno di ovvietà. Ma soprattutto mancano alcune considerazioni importanti, che ci aiuterebbero ha capire, e, ciò che dovrebbe contare di più, ci aiuterebbero anche ad orientare il futuro.
Gli “ovviologi” si stanno dedicando, come al solito, alla geopolitica, per dirci che la Russia e la Cina potrebbero colmare il vuoto lasciato dagli americani in Afghanistan. Poi si stracciano le vesti sulla sorte dei diritti umani e delle donne, concludendo spesso con una considerazione triste: “non è possibile esportare la democrazia in comunità che non hanno le tradizioni sociali e culturali del mondo occidentale”.
Dico subito, e molto chiaramente, che io non sono un esperto di Afghanistan. Conosco bene il Medioriente, ho lavorato molte volte in Iraq, in Siria, Libano e Giordania: mi conforta però la recente analisi di Anna Prouse sulla fuga degli americani dall’Afghanistan. (Domani 2/9/2021“Per prevedere il disastro afghano bastava guardare al ritiro dall’Iraq”). Anna – che è stata il mio capo nei progetti di ricostruzione della regione di Nassiriya – descrive i molti errori da loro commessi in venti anni di presenza nel paese, che ricordano, molto da vicino, quelli commessi nelle azioni militari e politiche condotte in Iraq. I più significativi sono, aver spazzato via la dirigenza dell’amministrazione dell’Iraq, che veniva dalla tradizione laica e socialista del partito Baath, aver condotto al potere iracheni sconosciuti e corrotti, aver tentato, non di esportare la democrazia, ma di proporre modelli americani, mandando giovani trentenni Hawardiani ad assistere esperti, giuristi e politici iracheni, con un minimo di almeno il doppio della loro età. Ma soprattutto in Iraq nessuna intenzione, o nessuna capacità, di comprendere appieno la realtà del paese, che avrebbe rappresentato l’essenziale base per operare cambiamenti. Come dice Anna, il copione si è riprodotto, quasi intatto, in Afghanistan. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Leggete anche la bella intervista di Margherita Boliver – una che sa davvero di cosa parla – “A Kabul un finale da film horror, Biden nuovo Carter”
In ogni caso chi volesse comprendere ancor meglio le reali ragioni della sconfitta afghana, potrebbe ascoltare lo splendido podcast di due giornalisti americani, Matthew Hoh e Krystal Kyle evidentemente molto controcorrente.
La loro analisi si concentra in primo luogo sulle molte falsità fatte circolare dai politici e dai media, oltre che sui giganteschi errori compiuti nel paese.
La prima di queste falsità sarebbe, secondo loro, l’esplosione della campagna di tutti i giornali ‘benpensanti’, come il Wall Street Journal o il Washington Post, che hanno subito attaccato il Presidente Biden, perché la fuga precipitosa ha abbandonato quegli afgani, e soprattutto quelle afghane che avevano creduto nel cambiamento. I due giornalisti fanno notare quanti morti civili ed innocenti abbiano causato i bombardamenti americani sul paese, spesso effettuati per mezzo di droni, ma anche – e questo è molto meno noto – il largo uso di truppe mercenarie, i cosiddetti contractors, che ormai sono utilizzati da moltissimi paesi per fare il ‘lavoro sporco’. Questi professionisti della guerra avrebbero attuato, per conto dell’esercito americano, rastrellamenti casa per casa, alla ricerca dei talebani, uccidendo però molti civili innocenti, donne e bambini.
C’è da meravigliarsi che questi comportamenti abbiano attirato su tutte le forze straniere l’odio della popolazione afgana? Le amministrazioni delle città sono state incaricate di mantenere l’ordine pubblico attraverso poliziotti di etnie diverse dalle comunità locali: e questo sarebbe un grave errore anche nei paesi più avanzati, figuriamoci in piccole comunità tribali che si sono combattute per secoli! Poi, naturalmente, c’è l’ancor più orrendo aspetto degli affari.
È vero che la guerra è sempre un affare per molti, ma se si guarda alle cifre, vent’anni di guerra in Afghanistan sono stati davvero una festa per i produttori di armi americane, per le compagnie dei mercenari e tutto l’enorme indotto che ne deriva. Anzi i due giornalisti fanno notare che per moltissimi Stati americani l’industria delle armi sia il primo datore di lavoro. Infine, e non certo da ultimo, vengono i leader cui gli americani si sono affidati. Non solo l’ultimo Presidente Ashraf Ghani è fuggito rapidamente in un elicottero pieno di dollari, ma gli appalti per la ricostruzione di scuole ed infrastrutture nelle città e nei villaggi sono stati affidati ai locali sindaci, che li hanno attribuiti a loro parenti ed amici, spesso addirittura rappresentanti dei talebani. Gli afghani che componevano l’esercito armato ed istruito dagli americani, hanno accettato di arruolarsi per ricevere lo stipendio, ma si sono dissolti come nebbia al sole preferendo i talebani a leader corrotti, messi lì da stranieri, e senza alcun appoggio popolare.
È solo una sintesi, è vero, ma forse spiega meglio perché la fuga precipitosa fosse a un certo punto divenuta l’unica opzione possibile.
Si potrebbe tristemente constatare che la violenza, e spesso la crudeltà, come gli affari, hanno sempre fatto parte di ogni guerra. Quello che colpisce però è la ripetizione di vecchi errori, che gli americani avevano fatto in Iraq e nel pur così diverso contesto di molti paesi dell’America Latina. Quando si fa la guerra ci vogliono le armi e gli eserciti. Ma se poi si vogliono ricostruire paesi migliori, allora occorre studiare con molta attenzione, le tradizioni e le strutture sociali sulle quali si intende operare. La considerazione secondo la quale non è possibile esportare la democrazia, è in primo luogo ipocrita perché in realtà chi lo afferma non ha il coraggio di terminarla, aggiungendo che d’ora in poi sarà inutile intervenire all’estero in aiuto a popoli in difficoltà e colpiti dalla violenza. Ma la frase è anche molto superficiale. Certamente la democrazia intesa come sistema politico, istituzioni ed elezioni non è probabilmente replicabile in tutti i contesti. Ma se parliamo della dignità e dei diritti fondamentali degli esseri umani allora il discorso è molto diverso. Se il mondo occidentale, quello democratico e sviluppato, fosse davvero convinto che si tratti di diritti universali – la più vera grande conquista della storia umana – allora occorre continuare a fare tutto il possibile non per esportarli, ma per garantirli alle donne e agli uomini in tutto il mondo.
E, guarda caso, questa sembra l’unica cosa riuscita in vent’anni di presenza in Afghanistan: molti uomini e moltissime donne, hanno capito e fatto propri principi fondamentali, come l’uguaglianza di genere, il diritto all’istruzione e alla manifestazione libera del pensiero. Anche senza i carri armati possiamo fare molte cose per aiutare il popolo afgano a conservare quei diritti. E la prima di esse è creare nei nostri paesi comunità in esilio, che resteranno afghani e potranno un giorno rifondare il loro paese.