Concorso Letterario Ogus De Monti. Pubblichiamo un racconto di Eliano Cau sul tormentato ritorno dalla Grande guerra a casa, in Sardegna, di un giovane soldato.
Nevicava sottile, quel giorno di gennaio del 1921, a Olisètzo, sferzato da una tramontana velenosa. Il corteo funebre procedeva controvento, in fila indiana. Le litanie del prete trovavano eco nel popolo salmodiante e infreddolito che seguiva la piccola bara bianca.
Era morta dopo alcuni giorni di febbre e di tosse incontenibile la piccola Maria, “figlia sola” di due miseri del paese. Già avanti negli anni, Antiògu e Mintònia vivevano del poco, della generosità della Natura, quando era generosa, e delle rare giornate che i padroni di quel luogo gli offrivano per un tozzo di pane. Di nient’altro. Maria era stata per il loro tramonto un raggio di sole, l’unico. Li aveva baciati col suo sorriso ineffabile e i suoi occhi azzurri come il fiore del lino dopo anni di attesa e un parto travaglioso e atroce, poi li aveva accompagnati nella loro matura tribolazione fino ai tre anni di quel gennaio glaciale. Da tempo si erano succeduti nel paese, uno dopo l’altro, molti eventi luttuosi dovuti a una polmonite virulenta e spietata, e purtroppo Olisètzo non era l’unico villaggio falcidiato dal contagio. In tutti quei mesi le campane avevano scandito più la morte che la vita, e i mille abitanti del borgo si erano ridotti, in quasi due anni, a meno di novecento. Per fortuna il funerale di Maria chiudeva quel triste rosario. L’ultimo, prima del suo, era avvenuto nel dicembre del ’20, tanto che tutti avevano pensato, sperando: – Forse non ci saranno altri morti di “dolor di costato” –. Non fu così.
Più che mai tetro e insolito, il corteo era aperto da thia Lughìa, una donna giovane e vecchia insieme, da alcuni anni dedita alle pratiche pie e al vino. E come la giornata era freddissima, tutti erano piuttosto alticci, compreso il parroco, che si difendeva dal gelo e scongiurava il virus maligno con le litanie e il buon rosso di Canales. Lughìa, che pur malconcia era stata di natura gagliarda e solida, aveva accompagnato altri morti, ma infanti mai. Abituata a servire i ricchi del villaggio e a portare e riportare dal ruscello i loro panni sulla testa, quel giorno di gennaio aveva chiesto che fosse lei a farsi carico della piccola salma.
Era stata la seconda madre della bambina, l’aveva vista nascere, crescere e morire in un amen, l’aveva amata, la amava, e nonostante il dolore, o forse proprio per quello, voleva accompagnarla lei all’ultimo riposo. Però non si era mai visto né sentito, a Olisètzo, e forse neppure in altri villaggi, che una persona trasportasse da sola una bara, seppur di una piccola anima. E siccome in un raro momento di lucidità aveva sperato e chiesto che se ne potesse occupare lei, tutti, genitori e prete compresi, acconsentirono alla sua preghiera. In che modo avrebbe compiuto l’impresa? Lei lo sapeva. Così, nel pomeriggio nevoso, subito dopo l’ora del pranzo, si presentò a casa della morticina mentre il sacerdote officiava il rito funebre prima di dire la messa in chiesa e condurre le piccole spoglie al cimitero.
Dalla casa della bambina alla parrocchiale c’erano pochi passi, per cui Lughìa lasciò che fossero altri a portarvi la bara. Ma un po’ prima che il corteo si muovesse, e approfittando dell’istupidimento generale, dopo essersi posizionato ben bene un cercine di panno sulla testa, con mossa decisa vi fece sedere la piccola cassa. E si incamminò, un po’ barcollante, seguita dal ministro sacro, da Mintònia e Antiògu e da una lunga processione di amici e parenti. Tra un rintocco e l’altro Lughìa stampava tre passi sulla viscida strada gelata, e malgrado le raffiche, a braccia tese come un funambolo, riusciva nel prodigio di tenere in equilibrio il misero feretro facendo trasalire, a ogni sbandamento, la catena dei vivi. Che andava, nera nella tempesta bianca, al ritmo delle preghiere e del pianto. Tutti gli sguardi erano fissi alla testa del corteo. Ma altri occhi, dalla collina sovrastante il paese, attraversavano la neve fitta. Erano gli occhi di Peddàiu, acuti come quelli dell’astore che intuisce la preda di là dal fogliame più folto. Prima capraro e poi soldato nella Grande Guerra, per alcuni anni si era isolato da Olisètzo temendo il contatto coi suoi simili, compagni o congiunti che fossero.
Vicino e lontano, vi mancava dal 1915, da quando partì per fare il soldato. Eppure era tornato nel tardo autunno del 1918 dopo essere scampato alle due tragedie, quella delle armi e quella della peste, la stessa che aveva ucciso Maria. Lassù al fronte, dai medici che negli ultimi mesi delle ostilità avevano curato i soldati delle trincee, veniva chiamata la “Spagnola”, e così la chiamavano le città e i paesi di là dal mare, e così la sua Isola, che nel viaggio di ritorno Peddàiu aveva attraversato prima di giungere al rifugio sull’altura sovrastante il suo villaggio.
In quel modo l’aveva conosciuta e la ricordava lui. Perché, ne era certo, lì e qua la morte aveva lo stesso alito velenoso e lo stesso nome. Seppure da tanta distanza, grazie alle sue pupille penetranti aveva riconosciuto ogni uomo e ogni donna, o almeno quelli che erano stati graziati dal morbo, ma fu soprattutto la sagoma sbilenca di Lughìa a colpirlo. E ora, quasi fosse stato un galeotto incarceratosi da solo, finalmente dopo tanto tempo stava maturando l’idea di presentarsi ai suoi, ma i suoi lo pensavano perito sul Carso.
Aveva atteso più di due anni vivendo delle capre che era riuscito a riportare all’ovile, si era nutrito di latte, formaggio, carne e frutta che prelevava dalle vigne e dagli orti altrui, e aveva impressi, dalla fine del ’18, tutti i pianti delle campane di Olisètzo. Si era illuso che i bronzi avrebbero rintoccato ormai solo per battesimi e per feste, e magari per le sue nozze con Lughìa, promesse a vicenda nel maggio del ’15 e mai celebrate. Per tutti lui era morto, e la notizia, che aveva raggiunto anche la futura sposa, aveva contribuito a invecchiarla in pochi anni e a spingerla sull’orlo della fossa anzitempo.
Questo pensava Peddàiu, che pur avendola individuata da tanta distanza, intuiva ora il suo stato penoso. Dunque fu proprio il funerale della piccola Maria a deciderlo a un passo che aveva evitato per l’estrema paura del contagio; dunque la speranza di riuscire a ricomporre il suo amore gelato dagli anni e dalla viltà forse gli stava rendendo più caldo e determinato il cuore. Lasciò che si compissero le esequie, sbrigative per il freddo e la bufera, e preparò le parole con cui avrebbe salutato Lughìa. Ma intanto rifletteva: – Prima di presentarmi a lei e al mondo voglio ritornare cristiano. Così sembro una belva, un cane fonnese, tutto peli e capelli e sporcizia di anni –.
Passarono alcuni giorni nell’attesa che si stemperasse il freddo, finché, a fine gennaio, un solicello buono illuse tutti, anche lui.
Si era acconciato alla meglio, sperando che i sensi di Lughìa prima, e dei propri familiari più tardi, non rimanessero fulminati dal suo aspetto e dal suo fetore. Così una tarda mattina, prima del pranzo, dopo aver governato il gregge, si decise a compiere il passo sempre rimandato e tanto temuto. Scese dal monte a passi lenti, guardingo, evitando grandi e piccoli, perché non voleva essere visto da nessuno se non dal suo antico amore e dai suoi. Con sul capo il pesante mantello d’orbace che aveva ritrovato nel pinnèttu insieme agli altri abiti di pace, e schivando i passanti che scorgeva da lontano, giunse a casa di Lughìa come un fantasma strappato ai secoli e ricomparso, redivivo, al suo mondo.
«Chi sei, o straniero?» esclamò titubante Lughìa, ancora sobria, alla vista di quell’essere peloso. «Come, non mi riconosci? Sono Peddàiu!» fu la risposta dell’uomo, sorpreso dallo stupore di lei e dal suo volto, scolpito in una maschera dal sorriso immobile come avesse ingerito l’erba sardonica. Lughìa non sapeva se ridere, piangere o svenire per la raffica di pensieri contrastanti che le si abbatté addosso. «Tu? Ma da dove vieni, da dove torni così sudicio e così diverso?» diede seguito la donna, riconoscendo alla fine quel che ne era stato del suo fidanzato di gioventù. Perché anche Peddàiu era come invecchiato di molti anni, di molti lustri. «Da dove vengo? È come venissi dalla guerra ora, Lughìa, come se l’11 novembre del 1918 fosse trascorso da pochi giorni. E invece quella data è per me remota ma anche attuale, perché di guerre io ne ho affrontate altre, da allora. Sono qui, nel mio ovile di Maiòlu, da quel mese lontano, e nessuno mi ha visto né riconosciuto. Non sanno nulla neppure i miei parenti, che ho evitato per non doverli avvicinare, stringere a me, salutare. Così come ho fatto nei tuoi riguardi. Ho sfuggito il contagio per salvare la vita, sperando che quanto prima finisse la strage e che anche tu fossi rimasta indenne. E adesso credo che il tempo sia ormai arrivato e che il piccolo innocente sotterrato il giorno della neve abbia chiuso la lunga catena delle sepolture, tanto immagino che se lo sia portato via la peste maledetta».
«Era una bambina di tre anni. Ma tu potevi avvisarmi, potevi mandarmi un messaggio con qualcuno, e così ai tuoi vecchi, ai tuoi fratelli e sorelle, che eri vivo, Peddà’. Certo non sai che anche uno di loro, il più piccolo, Giuseppe, ha fatto la stessa fine, sempre d’inverno, ma nel ’19. E per quanto riguarda me, io non sono più quella che ti salutò nel maggio del ’15, né tu sei più lui, no, non sei più il mio sposo.
Senza notizie dalla fine della guerra pensavo fossi stato ucciso o dai nemici o dalla pestilenza. Tutti i reduci dicevano che le trincee e gli ospedali da campo erano diventati delle fosse comuni, degli ossari immensi. Lì ti ho visto ogni notte nei miei incubi, morto, e ci ho creduto. E tormentata da queste angosce, ho preso a darmi agli altri, a chi ne ha più bisogno, sottraendo me stessa a un sogno ormai appassito», concluse il suo discorso affannato Lughìa. «Ma ora sono qui, sono di nuovo a casa e ci potremo sposare. L’epidemia ha esaurito le sue forze e non fa più paura, Lughì’. Perché mi respingi adesso? Dal viso sembri allegra, non così triste come dici». «Perché la tua attesa ha fatto di me una vecchia dedita al vino, un relitto umano. E la mia contentezza è una maschera, e il pianto mi annega il cuore. Ormai mi sono abituata ai panni della vedova senza mai essere stata tua moglie, e così sarà sempre». Dietro la foresta di peli e capelli lerci e lunghi oltremodo Peddàiu si rabbuiò, e con voce rotta anche dalla notizia della morte di Giuseppe ribadì: «Non ignoro di essermi comportato da egoista e vigliacco, ma quanto mi sia costato salvare la vita e mantenermi illeso lo so solo io. Volevo evitare di espormi all’infezione, e dopo aver messo piede nella nostra terra ho usato tutti i mezzi e i modi per continuare a vivere. Però non sapevo se annidato in me avessi portato il germe maligno, e per amore vostro, tuo e dei miei cari, per tutto questo tempo mi sono segregato nel vecchio caprile cercando di nutrirmi di ciò che le bestiole sopravissute ai cani randagi e ai razziatori di greggi erano in grado di darmi. Adesso però sono qui. Tornerò a casa, mi toglierò di dosso questi panni e questa pelle di guerra, mi renderò di nuovo un uomo», erano state le sofferte parole del reduce, che vedeva sgusciare dalle mani del suo futuro il sogno di convolare a nozze con la sposa di un tempo. Tuttavia il conflitto, gli anni e il terribile morbo lo avevano cambiato dentro e fuori, come Lughìa, in modo irreparabile. Perché due astri che si erano sfiorati, e amati e promessi in gioventù, pareva non potessero nulla, ormai, di fronte alle leggi del Tempo che ora cercava di scagliarli a distanze siderali uno dall’altro, forse per sempre.
Peddàiu non si dava pace nel constatare quanto i fatti esterni avessero potuto più che la sua volontà. Non si dava pace al ricordo di quando si perdeva all’ombra dei suoi occhi illuminati da uno spicchio di luna. Lei lo aveva amato, e lui aveva ricambiato il suo amore, il buon miele per il futuro, temendo il tramonto degli addii. Le aveva donato fiori, ogni suo desiderio era stato per lui prezioso più dell’oro, il coraggio di ieri, la speranza di un domani felice. Spesso, stretta a lui, aveva tremato come viola sotto il maestrale feroce di Olisètzo, nella primavera che ritmava la sua partenza per il fronte, in quel maggio fiorente di speranze e furente di terrore. Eppure Lughìa alla fine era serena. Aveva capito le paure del suo antico sposo e i dubbi che avevano spinto lei a esitare. Aveva sofferto, l’aveva dilaniata la trepidazione e il dolore, graffiata il tempo, nell’anima e nel corpo, ma il bene che nutriva per Peddàiu era più potente di qualsiasi tempesta, di ogni crudeltà, di ogni generoso egoismo, prezioso balsamo di entusiasmo ieri, disperata speranza oggi. E disse sì, gli disse sì, solo all’apparenza imperturbabile, penetrando la rude corazza dell’eremita fino al cuore.