Dire che ammiriamo un’opera architettonica significa dichiarare che ritroviamo in essa i valori che apprezziamo, rilevare che nei suoi materiali, nelle sue forme o nei suoi colori ritroviamo qualità positive come la delicatezza, la forza, l’integrità, l’eleganza, l’intelligenza …. Dire che un’opera è bella significa dunque individuarvi un’interpretazione dei nostri ideali individuali. Se consideriamo la nostra casa, il rifugio dei nostri stati mentali, non possiamo non renderci
conto che noi entriamo in simbiosi con i suoi ambienti, e con le varie stanze stabiliamo relazioni e forti legami, la personalizziamo arredandola e ampliandola nel tempo seguendo gusti personali e crescite individuali. Nelle camere da letto cerchiamo pace, nei bagni l’efficienza, nei mobili e negli arredi l’armonia, nelle colonne o negli spigoli l’eleganza, le scale che ci portano da un piano all’altro devono suscitarci un’emozione. Gli archi a ogiva ci comunicano passione, gli archi a tutto sesto serenità ed equilibrio, certe curve possono parlarci di allegria, certe linee dritte di logica … and so on. Molto spesso non siamo in grado di guardare edifici o arredi senza collegarli mentalmente al periodo storico o alle circostanze personali del momento in cui li guardiamo. I luoghi diventano dunque scenari emotivi dei nostri ricordi. Ma è anche evidente che le cose belle suscitano oggettivamente emozioni positive, fanno valere la loro qualità al di là delle nostre associazioni mentali del momento. A ciascun edificio chiediamo non soltanto di assolvere a determinate funzioni, ma anche che abbia un aspetto che soddisfi le nostre esigenze e che contribuisca a creare un’atmosfera, a seconda dei casi religiosa, culturale, di semplicità o di futurismo, di ambiente di lavoro o di vita famigliare. Vogliamo comunque, e sempre a seconda delle esigenze, che ci ricordi il passato o ci anticipi il futuro. John Ruskin scriveva che «I nostri edifici devono darci riparo e parlarci».
E il compito degli Architetti, a dirla con la filosofia degli Ingegneri, è trasformare edifici utili, pratici e funzionali in qualcosa di bello. Raramente gli edifici riescono a trasmettere l’idea degli sforzi che sono stati necessari per la loro costruzione, tacendo per pudore i problemi risolti faticosamente, le paure, i ritardi e la polvere che ha visto la loro realizzazione, tutto il lavoro fatto per convincere i materiali e gli esseri umani a collaborare allo stesso progetto per fare in modo che tutto si assembli in armonia e che ogni parte architettonica e ogni impianto assolvano con efficienza al loro compito. Noi stessi siamo persone diverse in luoghi diversi. E siamo divisi tra la necessità di zittire i nostri sensi ignorando l’ambiente circostante per non esserne influenzati e l’impulso opposto di riconoscere che la nostra identità è indissolubilmente connessa all’identità dei luoghi in cui passiamo la nostra esistenza, e che noi ci modifichiamo vivendo in essi.
E quando avremo assolto ad ogni compito e avremo realizzato l’edificio secondo i nostri desideri e raggiungendo gli obiettivi prefissati avremo anche la certezza che tutte le cose hanno la spiacevole tendenza a iniziare a deteriorarsi dall’attimo successivo. Appena entrati in una casa appena costruita o ristrutturata, un palazzo o un grattacielo appena inaugurati potremmo essere sfiorati dall’immagine furtiva ma triste che da quel momento il declino impaziente, lento ma inesorabile, inizierà a segnare con le sue visibili tracce, crepe e macchie il lavoro di cui siamo così orgogliosi. Le rovine antiche che tanto ammiriamo ci insegnano questa lezione