“Lungo i giardini consacrati al pianto / Si festeggiano i morti”.
Una delle espressioni più serene, toccanti e felici del novembrino paradosso di Francesco Guccini, è in un bellissimo film in sala in questi giorni: “Madres paralelas” di Pedro Almodovar. “Madres paralelas” è il primo film di Almodovar sulla memoria storica spagnola. Un tema che solo lui poteva affrontare così, interpellando senza sussiego testa e pancia. I suoi protagonisti sono due teste, due cuori, due pance. E la nascita di una nazione. Per questo “Madres paralelas” è la migliore introduzione possibile alla storia, più personale, che mi premeva raccontare. Di un altro film, un’altra vicenda umana, un’altra nazione rinata dal cimitero sotto la luna di un giorno di novembre di 78 anni fa a Ferrara. Ci siamo divisi il compito: il film racconta l’urlo da cui inizia, come la storia di Almodovar (che associa l’urlo della partoriente a un dettaglio di Guernica), la storia di quest’altra rinascita. Io la lenta morte personale di un uomo giusto. Ma cominciamo, come si conviene, da Pedro.
EVA CONTRO EVA. Il capolavoro di Mankiewicz è ormai il paradigma del cinema di Almodovar. Per chi come noi è cresciuto col mito delle macchine mobili che inseguono i personaggi per strada, del primo piano costante, del piano sequenza spericolato e acrobatico, la ritrovata classicità del regista spagnolo dà un senso, quasi vergognoso, di piacere ritrovato. Un cinema meravigliosamente frontale. Pochi movimenti di macchina, studiati, essenziali, emozionanti. Eva contro Eva una di fronte all’altra, una di fianco all’altra, una addosso all’altra. In mezzo un tavolo in cucina, il tavolino di un caffè, il comodino di una clinica, un uomo, niente. Un procedere stupendo di inquadrature lente, forti e quiete, commoventi, ampie, colorate, accoglienti. Come una pancia. “Madres paralelas” è il film di due pance, di due dolori, di uno scambio di bambini, di due memorie. D’amore e di morte, in culla e in guerra. Il governo spagnolo per un po’ ha finanziato (i socialisti) la ricerca delle fosse comuni della guerra civile. Ora i democristiani cominciano a tagliare i fondi, cosiddetti “per la memoria”. Chi cerca i corpi di nonni e bisnonni (ormai) si muove in questi ondeggiamenti della politica. Penelope cerca un bisnonno, cioè il suo piccolo cimitero sotto la luna, che sa più o meno dov’è; ma bisogna scavare, in questa archeologia della memoria. In marcia con la sua bimba in braccio come l’eroina del “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, in una spiritosa rievocazione “all women” di quel quadro famoso anche in Spagna. Mentre la quarta generazione si affaccia alla vita sull’orlo di una fossa che è il pietoso “da dove veniamo”, memoria utile per il “chi siamo” e il non meno importante “da che parte stiamo”. Come la storia che segue.
IL FIGLIO DI SCIAGURA.
L’AGRONOMO. Bologna, anni 70, verso la metà (chi potrebbe essere più preciso o è morto o chissà dov’è). Siamo nell’ufficio tecnico di una compagnia di prodotti chimici per l’agricoltura (anticrittogamici, antiparassitari, cose così), sezione agronomica italiana di un importante gruppo chimico francese con sede a Lione. Da un po’ la società si è trasferita a Roma (da Torino) e il piccolo ufficio tecnico, da sempre distaccato a Bologna, avrebbe dovuto seguirla. Solo che il suo capo (mio padre), dirigente di ormai lungo corso, non ci pensa nemmeno a trasferirsi con la famiglia nella capitale, ed è stato accontentato: l’ufficio è rimasto. È un team di dieci o quindici fra agronomi e periti agrari e tre o quattro segretarie. Almeno una delle quali – oggi il massimo è due – mi legge.
Una mattina di quell’anno, M. C., quarantenne, uno degli agronomi, entra nell’ufficio del direttore. Si siede e scoppia a piangere. Ieri è morto suo padre. O almeno, ieri glielo hanno detto, perché questo padre, sparito quando lui era bambino, è morto in Sudamerica. Dove era scappato nel ’45. Per la prima volta in vita sua il misero sta raccontando a qualcuno chi era suo padre.
In quegli anni la televisione è ancora solo Rai (e vabbè), in bianco e nero (poco male, nel nostro caso) e ha solo due canali. A mezzanotte, telescopio, inno nazionale e tutti a letto. Per “passare” in TV, un film deve avere cinque anni (erano dieci all’inizio). La prima serata è praticamente l’unica: dopo ci sono le rubriche e i telegiornali della notte. Ma ciò significa, fra le altre cose, che quel che passa in TV lo vede davvero mezza Italia; anzi, di più. Due giorni prima, in televisione, mezza Italia ha potuto rivedere un grande film, “La lunga notte del ’43“, di Florestano Vancini, e ancora una volta M.C. ha rivisto suo padre. O meglio, Gino Cervi nei panni di suo padre. Il nome è diverso, anche perché la storia vera (che rapidamente vedremo) ci dice che in quel personaggio, soprannominato “Sciagura“, regista e sceneggiatori (Pier Paolo Pasolini e Ennio De Concini) hanno fuso più di un personaggio reale. Ma lui solo questo ha visto: suo padre, per breve tempo federale di Ferrara, poi lurido torturatore della brigata Tagliamento nelle valli lombarde e nell’urbinate. Condannato a 24 anni nel ’48 per quella strage di cui si era tracotantemente assunto la responsabilità, e all’ergastolo nel ’52 per una catena di efferatezze solo in parte assorbite dall’amnistia togliattiana, già da anni aveva riparato in America Latina. Diversamente da quanto accade nel film, nessuno lo avrebbe più visto né sentito in Italia. Tanto meno a Ferrara.
LA LUNGA NOTTE DEL ’43. “Una notte del ’43” è una delle “Cinque storie ferraresi“, il libro che nel ’56 aveva rivelato come narratore, e che narratore, il poeta Giorgio Bassani (“L’alba ai vetri”, poesie 1942-’50). “La lunga notte del ’43“, invece, è il film che Florestano Vancini ne trasse quattro anni dopo, nel 1960. Aggiungendo un finale che ancora fa discutere (buon segno). La notte di cui si parla è quella del 15 novembre (Bassani la sposta in avanti di un mese, e così il film), quando, per vendicare l’oscuro assassinio del federale Ghisellini, dieci comuni cittadini e un senatore, scelti fra gli ebrei e gli oppositori del regime (ma in un paio almeno di casi sembra più plausibile l’ipotesi della vendetta personale, o del caso), furono ammazzati e lasciati a terra per tutto il giorno successivo. Otto contro la spalletta del fossato del castello, tre nei pressi. Racconta Vancini: «Un mattino umido e grigio del novembre 1943, mentre andavo a scuola, incontrai sulla strada una distesa di morti. Qualcuno di loro lo conoscevo di vista. Li guardai e non li dimenticai più. Provai un odio del quale mi nutrii rabbiosamente. Qualche giorno dopo vidi un altro spettacolo che non dimenticai più. Davanti alla casa del fascio la gente faceva la fila sotto la pioggia per andare a iscriversi al Partito Fascista Repubblicano. Ai miei occhi fu questa la risposta che la mia città diede a quel fatto. Provai una ripugnanza che non potei mai vincere.»
Libro e film inseriscono i fatti all’interno di un racconto di finzione, ma se la storia ferrarese di Bassani ha i tratti di un racconto morale alla Gide, la mano di un altro poeta, Pier Paolo Pasolini, dà al film le vibrazioni, sentimentali e politiche di un piccolo capolavoro post neorealista. Pur non condividendo l’impianto neorealista del film, a Bassani piacque l’opera dei tre autori. E ancora oggi la storia del farmacista paralizzato (Enrico Maria Salerno) che dalla finestra di casa assiste alla strage senza avere la forza, dopo la guerra, di testimoniarlo al processo; di sua moglie (Belinda Lee), che lo tradisce con il figlio di una delle vittime; del caporione fascista (Cervi) che aspira a sostituire il federale assassinato e organizza l’eccidio e, non ultimo, del figlio dell’avvocato ucciso (Gabriele Ferzetti), che tornato anni dopo in città dalla Svizzera con la famiglia, viene avvicinato davanti al castello dall’assassino di suo padre che lo saluta cordialmente e, pur riconoscendolo, gli stringe la mano, spiegando poi alla moglie: «era una specie di gerarca fascista, un poveraccio, lo chiamavano Sciagura; non credo che abbia fatto niente di male», resiste nella considerazione generale come l’esito più importante di un autore spesso ingiustamente sottovalutato.
“Dice l’Apocalisse: Il lupo e l’agnello dormiranno insieme. Ma l’agnello dormirà poco e male.” (Woody Allen)
MASCHERE E PUGNALI. Il 25 luglio del ’43, Giovanni Dolfin, prefetto di Ferrara è in carica dal 1° febbraio. Quarant’anni anni, vicentino, ex deputato, già segretario del fascio di Vicenza e membro del direttorio nazionale del PNF, fra le sue “onorificenze” vanta il titolo di Squadrista e il brevetto della Marcia su Roma. La fatidica data lo euforizza (non è certo il solo) e il 7 di agosto scrive al Ministero dell’Interno: «Comunico a codesto Ministero di avere già iniziato da giorni l’esame delle posizioni dei Podestà dei singoli comuni della provincia per eliminare gradualmente coloro che si siano creati posizioni di incompatibilità con l’attuale situazione politica o con le popolazioni. È oggetto di mia particolare indagine la posizione del Preside dell’Amministrazione Provinciale e del Podestà di Ferrara, entrambi squadristi». Il Preside, poi, è «particolarmente legato alla politica condotta in Ferrara dalla disciolta Federazione fascista». Insensibile a tanto zelo, il 1° settembre il governo Badoglio gli nomina un successore, lasciando l’epuratore di agosto, politicamente parlando, “à la belle etoile“. Niente paura. Quando Mussolini da Monaco annuncia la nascita della RSI, l’ex prefetto estense sarà tra i primi ad iscriversi al PFR; qualche settimana ancora e lo troviamo addirittura segretario particolare di Mussolini a Gargnano. (Antonella Guarnieri – “Dal 25 luglio a Salò. FERRARA 1943“, Grafis edizioni, 1993 – ottima la sua scheda archivistica sulla strage).
Pur nei suoi aspetti da commedia all’italiana, il caso del prefetto Dolfin è sintomatico del clima in cui si apriva, quel 15 di novembre, il primo congresso del P.R.F. I 45 giorni di Badoglio, aggiunti ovviamente all’andamento della guerra, avevano aperto nel fascismo una faglia di quelle in cui scompare una città. Si incontravano a Verona “camerati”, molti dei quali dovevano sentirsi come l’agnello del wiz di Allen. Quel mese e mezzo, con il suo allegro saltellare di quaglie, aveva esasperato la crisi interna al fascismo da tempo. E non solo a Ferrara, dove nessuno ha mai davvero pensato che il federale fosse stato vittima dei partigiani di una resistenza ancora di là da venire (era stato assassinato dentro la sua macchina da qualcuno che viaggiava con lui, come rilevò immediatamente un’inchiesta presto abortita fra i sospetti di tutti su tutti). Quel giorno, Igino Ghisellini, federale da 20 giorni, era atteso a Verona. Intendeva portare all’attenzione del congresso una denuncia, lungamente preparata, sui riposizionamenti, i tradimenti e le vere e proprie faide interne al partito, da cui lui stesso si sentiva – non a torto – minacciato. Il segretario Pavolini non aveva perso tempo, slegando i cani a furor di congresso. Ordinata la rappresaglia, non appena giunta notizia dell’attentato, spedì a Ferrara, a supporto di quelle locali, le squadracce che per giorni avrebbero terrorizzato la città. Forse la borsa trovata nell’auto del delitto gli fu portata, forse no. In molti diranno poi di averle lette, quelle carte. Non chi indagava, che probabilmente mai le chiese. E quella borsa divenne un po’ come, ai giorni nostri, la famosa agenda rossa di Borsellino.
“SCIAGURA“. Giustiziato Pavolini sul lungolago di Dongo; processato e fucilato a Novara il presidente della Provincia Vezzalini (inviato appositamente a Ferrara, insieme al console della Milizia Giovan Battista Riggio, per organizzare la rappresaglia), il processo per l’eccidio si conclude presso la Corte d’Assise Speciale di Ferrara il 26 marzo 1948 con 6 condanne. Le più gravi a Riggio (30 anni), al centurione della Milizia Ciro Randi (quello che disse di aver portato a Verona la borsa di Ghisellini) e a un certo Arrigo Cavallazzi (24 anni). Tutti latitanti. Ma chi è l’ultimo?
Non ci sono immagini di quest’uomo. La storia lo considera poco più di un fascista di complemento, e sostanzialmente lo ignora. Le storie personali raccontano invece una delle figure più sinistre della milizia repubblichina. Quadro di secondo piano del Consorzio Agrario Ferrarese, quando Mussolini proclama la nascita di Salò, è tra i primi rifondatori del fascio. La relativa diffusione locale del cognome faciliterà non di rado la confusione con altri. Con Ugo Cavallazzi, ad esempio , membro della Camera (lui tutto era, meno che deputato). O con un certo dott. Cavallazzi incaricato di un’indagine giudiziaria (figuriamoci). Potrebbe essere giusta, invece, la scheda a suo nome (rag. Arrigo Cavallazzi) dell’Associazione Nazionale Alpini (iscritto e cancellato in due anni, praticamente mai visto). Nominato federale a primavera, con il partito in una situazione da anarchia imperiale (quattro federali in sei mesi) dopo qualche settimana lascia. Non volontariamente, pare. Prende, e a modo suo “va in montagna“. Lo ritroviamo in quella sorta di legione straniera che è la brigata Tagliamento, svariante fra le valli lombardo venete e il Pesarese. A questo punto le uniche notizie su di lui verranno dagli atti processuali (scheda archivistica di Chiara Donati sul processo di Milano, 1952, per 52 capi di accusa e relativi fatti ), dai quali questo Carneade da storia universale dell’infamia emerge come uno degli esseri più ripugnanti della trista compagnia. Lo toglie dall’anonimato storico solo quel “Ferrarizzare l’Italia!” che risuona alla fine del film, gridato più volte, come un marchio. Coinvolto da Vezzalini nella scelta delle vittime. Assolse il compito con fierezza, fino ad assumersi in giudizio la responsabilità dell’eccidio. Il resto è fama popolare, trista e nera (Gian Pietro Testa), quella a cui deve quel soprannome di “Sciagura“, nato tanti anni prima con intenti sarcastici. Come un bambino chiamato Gianburrasca che da grande diventa tagliagole. Portandosi dietro quel soprannome da discolo.
L’AGRONOMO (ripresa). Quando anni dopo, mi trasferii a Roma, ad aiutarmi a cercar casa c’era lui, M.C. (ma la C. ormai avete capito qual è), nel frattempo trasferitosi con la moglie nella Capitale. Gentile e riservato, timido e disponibile, per qualche giorno con una segretaria della società, girammo il Trionfale, dove abitava, seguendo annunci. Morì giovane; ancora nei cinquanta, credo. Fumava come un camino: ricordo la punta delle dita e le unghie nicotinizzate del tabagista. Poi, morì anche la moglie. Non avevano figli. Aveva vissuto senza riuscire a dire a nessuno, se non a mio padre, chi fosse il suo e si era sentito “smascherato”, in questo, da un film. Ma ne aveva anche ricevuto la spinta a farlo. Ora che sono morti tutti, l’ho raccontata.