L’attuale pressione migratoria al confine tra la Polonia e la Bielorussia rievoca immagini di altri tempi, quando masse di fuggiaschi cercavano di penetrare nelle parti economicamente più avanzate e sicure d’Europa in cerca di salvezza dalla fame e dai nemici.
Tende, fumo, assembramenti, tentativi di varcare la terra di nessuno, concentrazioni di truppe pronte al respingimento. E tutto ciò che questo si porta sempre dietro: violenza, disperazione, fame, freddo, malattie, morte. Ciò che sta avvenendo a ridosso al confine orientale d’Europa è più evocativo degli analoghi drammi del passato di quanto non siano i concomitanti tentativi di entrare in Europa clandestinamente attraverso il mare. Pertanto, è percepito come un pericolo incombente, che va sventato.
Gli Stretti di Gibilterra, di Sicilia e di Lesbos sono difese naturali dell’Europa. Chi tenta di attraversarli senza permesso lo fa a suo rischio e pericolo. Chi non riesce nell’impresa muore: spesso senza che il mondo lo sappia, da solo, di notte, annegando dopo avere annaspato tra le onde (la fine più orribile). Ma un’altra cosa terribile è chiedersi, senza potersi dare una risposta: quante persone sono morte in questo modo? Non solo non conosciamo le vittime, anagraficamente parlando; non sappiamo nemmeno quante sono state. Il dramma si è consumato in segreto. Non sappiamo nemmeno in quali circostanze le vittime abbiano incontrato la morte, perché è successo che uomini, donne e bambini siano stati lasciati soli a morire, chi li ha mandati a morire, chi ha negato loro l’aiuto per non morire.
Al confine polacco-bielorusso, invece, tutto avviene sotto gli sguardi del mondo. Si vedono le immagini alla televisione, ne parlano i giornali. Qui si tocca con mano il dramma, e questo ci mette paura. Da qui la ritenuta necessità impellente di difendersi, pronti a tutto.
Il fenomeno migratorio si ripete ciclicamente fin dalle origini dell’Umanità ed è legato a tre fattori scatenanti: la fame, la miseria e la guerra. Esso è il sintomo di una malattia, ed è notorio che curare il sintomo può portare sollievo, ma non guarisce. Se si vuole affrontare il problema con una ragionevole speranza di successo, bisogna perciò curare la malattia, rimuovendo le cause che la determinano.
Per quanto ci si scervelli sul come fare per risolvere il problema della pressione migratoria ai confini dell’Unione Europea, si finisce sempre per concludere che la soluzione vincente è quella d’intervenire sulle condizioni di vita delle popolazioni dei Paesi da cui provengono i migranti, per migliorarle, e che ogni altra ipotesi sia buona solo per speculare sulla tragedia altrui, per esempio strumentalizzandola ai propri fini politici mediante la propaganda.
Ma la migrazione è in atto, e la pressione aumenta. Che fare? Sbarrare la strada mediante la costruzione di muri lungo i confini? Respingere i migranti con la forza, contrapponendo truppe e reparti di polizia armate di mitra, fucili spara-granate, idranti e manganelli? Queste pratiche servono solo a rimandare la soluzione del problema, con il rischio che, nel frattempo, questo si aggravi. La cosa peggiore che si possa fare in circostanze come queste, è usare la forza contro coloro che non hanno niente da perdere. Significherebbe aumentare nei superstiti la capacità di resilienza e la disperazione, pertanto renderli più resistenti alle avversità, forti e determinati (“Whatever doesn’t destroy me, makes me stronger”, Tutto ciò che non mi distrugge mi rafforza).
La Storia insegna che bisogna evitare che i profughi — intesi come coloro che non premono alle porte di casa nostra per derubarci, ma perché sono alla disperata ricerca della salvezza dalla fame e dalla guerra per sé stessi e i loro cari —, si trasformino in un esercito pronto a tutto, perché, a quel punto, ogni ragionamento diverrà inutile e l’unica soluzione sarà la guerra.
Ci si è tante volte chiesti il perché l’Impero Romano è crollato e sono state ipotizzate le cause più varie. Sembra probabile che l’inizio della fine sia stato l’avere ammesso nell’Impero una moltitudine di Goti che premeva al confine danubiano, in fuga dagli Unni, che la incalzava alle spalle (376 d.C.). In precedenza, il problema migratorio era stato spesso risolto sbrigativamente, mediante l’uso della forza. Vedi per esempio la Guerra Cimbrica (113-101 a.C.), che vide la distruzione di interi popoli — i Cimbri, i Teutoni, gli Ambroni — a opera delle armate di Gaio Mario e Quinto Lutazio Catulo. Nel 376 d.C., l’Impero ritenne che potesse essere conveniente servirsi di quei profughi ai propri fini (soprattutto di reclutamento militare), e le porte si aprirono. Ma, attenzione! Non fu l’ingresso dei barbari nell’Impero ciò che portò quest’ultimo alla rovina. Furono le angherie che i profughi dovettero subire a causa di mercanti ingordi e di funzionari e militari corrotti. Alla fine, la tensione esplose, i disperati divennero una potente forza armata e si giunse alla disastrosa sconfitta dell’Impero nella Battaglia di Adrianopoli (378 d.C.).
La lezione che si può trarre da quei fatti è che, quando ci si confronta con un’ “invasione” di profughi senza scarpe né bagagli, ciò che ci deve preoccupare di più è la nostra miopia.
Illustrazione iniziale di Maria Giovanna Lanfranchi