L’orizzonte desiderato dalla tormentosa esistenza di Luigi Filippo Tibertelli de Pisis – esistenza conclusasi, a sessant’anni, quel 2 aprile del 1956 in un perlaceo cielo della primavera milanese – è, per sua stessa ammissione, posto «Al di là di barriere ideali». Al contrario di tanti altri uomini d’arte e poeti plasmati in una simile pasta, nessuna ragione di concreta pacificazione s’era formata in de Pisis, né con l’uomo, né con il mondo in cui egli navigava con estrema difficoltà.
Però, oltre lo stesso frangibile desiderio del sogno, egli ritiene, in quella veste ricca di candore attestata dalla poesia omonima, che lì, soltanto oltre quelle barriere può essere trovata l’unica «pace» possibile da poter serbare. Ma cos’è stata la vita percorsa da Filippo de Pisis, in quel viaggio mirabilmente sospinto dalla sua non indifferente forza propulsiva nata, non da illuminanti verità, piuttosto dal possesso di un estremo e pulsatile bagaglio di fragilità? Certo un bagaglio assetato di rapporti, di sensitive affermazioni, di saperi terrestri, di primitivi apprendistati dalla natura, capaci, come egli stesso afferma, di giustificare la pienezza di tale sua vita ben riconoscibile appena nell’essenza friabile dell’«ombra di un fiore». E, non a caso, tale ombra si associa a “casti pensieri” trovando il suo letto ideale “sull’onde del mare” fino a brillare, colmata dagli umori delle esistenze, nella tremula lanterna fatta dall’ «ombra di una lucciola», quasi a riscaldare, pur nel suo infinitesimo potere di calore, un amore occasionale, il rimbrotto gemmato da un colloquio pronto a restituire o perfino a tradire le memorie famigliari, a riportarlo comunque e sempre, in qualunque parte d’Europa egli si trovasse (soprattutto nella Parigi che alimenta la sua maturità d’artista e di poeta), nella atmosfera della sua Ferrara (vi era nato nel 1896) o ricondurlo, vagolo, tra le acque palpitanti di Venezia. Quell’ombra – scrive – proiettata «nel verde cupo / è la mia vita ora. / E che mi importa del resto?».
Un suo olio del 1925, Natura morta con ritrattino, restituisce in tutta la sua pienezza creativa i temi che avvincono mente e anima di de Pisis, la sua poesia: gli immancabili fiori selvatici, le margherite, i piccoli crisantemi ornamentali, le mimose, qui posti come a simulare un domestico boschetto floreale sul margine esterno del tavolo, alimentati dall’acqua che riposa in due recipienti a incorniciare un ritrattino raffigurante un giovane uomo che alza il calice, dai fianchi avvolti da una fusciacca nerissima, mentre un sottile foulard scuro annoda il suo collo e delle ‘ballerine’ nere inguainano dei piedi fusati, quasi femminili. Un corpo oscillante in un fondale di biacca addensata e che, per alcuni aspetti, rimanda a quella foto di Filippo, quando, a 31 anni, per il Bal de Caz’Arts a Parigi (1927), indossa un singolare costume, e che, pur nella sostanziale diversità, si avvicina all’elemento pittorico, in virtù della postura generale, e, forse ancor più, per quel naturale tentativo alla danza, all’ascensione corporea. A tali elementi, al centro del tavolo, si accostano una farfalla ed un cuore mollemente adagiato su di un giaciglio di carta bianca. La farfalla è una ‘Vanessa Atalanta’ che ritroviamo nell’interezza solare e malinconica della poesia dedicata a Montale, Vanessa nel sole. Agli occhi del poeta è la «sepoltura dell’estate», in una giornata novembrina, ad accogliere la Vanessa; essa nel suo moto vibratile «fugge entro pareti d’ocra / e polveri rare. Un “velario di dolore” in cui sta la rugginosa presenza del cuore enucleato dal corpo, quel cuore che, come attesta in Ombre, «non fa ombra» e dove il rapporto entomologico con quello anatomico si fa stringente; e insieme: ombre, lepidotteri, cuore e turbamenti, mente e dolore s’inseguono agitati da una strenua ansia.
Un cuore attraversato da ombrosi atteggiamenti, irritabile ai confini forzosi posti dalla quotidianità, mentre il flusso continuo della melanconia sommerge la sua anima. È, infatti, la melanconia a spegnere la grazia di un cuore serrato nel limitare di un’ombra nata nel genio, nella grazia della distinzione. La Vanessa ritorna ancora tra i componimenti poetici tardivi, ammantata di sole e che, attraversando l’antico crepaccio, sugge con la sua spirotromba l’anima gentile e ventosa del fiore di cappero, con quel suo incessante «moto d’ali senza posa / piccolo vortice», simile all’affanno vorticoso che agita de Pisis; essa tocca, in parallelo, ciò che Filippo invoca: «il mio cuore», dice, «prigioniero indurito, / si volge turbato quasi / a questa leggerezza divina.»
Medesima tangibilità che ritroviamo, appunto ben materiata, in quell’olio palermitano del 1949 che abbiamo trovato tra le stanze del Palazzo Chiaromonte-Steri e a cui abbiamo dato il titolo di C’est n’est pas tout: certamente opera d’una drammatica intensità, a piene mani versata dalla sua architettura sentimentale, capace di legare il De Pisis poeta al pittore.
In essa vigono tracce cinematiche proprie di quel suo incedere nell’intercapedine degli spazi (così nella versificazione) ove il centro focale viene generosamente affidato alla florealità: metafora del ciclo esistenziale, della casualità tragica della vita, luttuosa, a segnare quell’abilità “schermistica” efficacemente messa in evidenza da Renato Barilli, quando sottolinea di «quel suo colpire di punta, o del procedere con unghiate, con rapidi passaggi del polpastrello; a patto che tutti questi interventi facciano cagliare un grumo di materia». In tale panormita ‘vaso di fiori’ i grumi ‘cagliati’ si offrono nell’alveo della morfologia botanica che de Pisis ama rappresentare come agitata dal brado scompiglio delle sue visioni: bianche e gialle margherite selvatiche, pansé, carnose bocche di leone, da cui traspare l’arcana sensualità naturale, agile nel ricondurci a quelle incise parole di Emilio Cecchi per cui «l’amore pei fiori non è che un’oscura trasposizione di lirismo sessuale».
Sette anni dopo i “fiori”, la sua vita è registrata dall’amico scrittore Giovanni Comisso come esistenza di un segregato: «Sembrava considerasse questa sua stanza di recluso, come una delle sue abituali e bizzarre nelle passate stagioni d’avventura» scrive «non desiderava uscire da quella clinica, ritornare alla sua casa veneziana, potere guarire e riprendere la sua vita fatale e alata di un tempo, egli infine si crogiolava adattato a quella clausura, come chi invescato in un imbrogliato ingranaggio giudiziario passa da un processo all’altro, da un carcere all’altro accettando oramai di non essere più libero. Sembra impossibile, ma non vi è, più dell’anima umana, elemento al mondo maggiormente pronto a adattarsi a un vivere anche del tutto opposto a quello che fu predominante, anche se fu tra i più ribelli e forsennati». Poi, nel ‘diario’ comissiano, ai giorni 4-5-6 dicembre 1953, si legge: «A Milano: visto De Pisis: l’ò tratto fuori dal sepolcro. Le nostre opere sono le orme dei nostri passi mentre si cammina nella vita. Egli non cammina più e non lascia più orme»; e, lapidariamente, nel giorno 2 aprile 1956: «È morto De Pisis, mentre stavo scrivendo su di lui. I suoi quadri si fanno più vivi». Così i suoi versi, il suo «cuore che batte fuori ritmo», fluttuante come «sughero leggero», come le sue «partenze gentili».
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In copertina Filippo de Pisis, C’est n’est pas tout, olio su tela, 1949. “Quadreria Mediterranea”, Palazzo Steri, Università di Palermo.
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Due poesie di de Pisis
1.Vanessa nel sole
a Eugenio Montale
Nel sole della giornata di novembre,
sulla sepoltura dell’estate,
ho visto volare una farfalla
rossa, rapida, leggera,
la vanessa Atalanta.
Nell’aria cordiale della piazza
fugge entro pareti d’ocra
e polveri rare.
Pare il fantasma
di meriggi lontani.
La miseria umana
non esiste più.
Intesse con raggi di sole
uno strano velario
fra me e il dolore
l’insetto veloce.
E lo ripenso nella calma notte di luna
quasi tiepida,
attraversando questo giardino segreto.
2.Natura morta
Sulla carta gialla che si piega in onde
(attese, addii, partenze gentili)
il grappolo di uva, nudo, verde
coi suoi lustri mi guarda,
m’invita a impugnar la paletta;
questa volta però
voglio solo allacciarlo
con misterioso filo
al mio cuore che batte fuori ritmo,
sughero leggero, a galleggiare
sul dolce mar dell’esistere.
(Da Filippo de Pisis, Poesie, Vallecchi 1942; Garzanti 2003)