Il biennio breve. Si conclude un anno iniziato in primavera, per quanto riguarda le sale, e in autunno per le produzioni e le uscite più importanti; il 2020 aveva conosciuto solo l’estate e uno scampolo d’inverno. Ora che la situazione si sta lentamente stabilizzando, escono uno dopo l’altro i film più attesi di questi due anni, fra cui quelli di alcuni classici contemporanei. Preceduti da “The french dispatch” di Wes Anderson e dai vincitori di Cannes e di Venezia, usciranno a giorni, fra gli altri, “Un eroe” di Asghar Farhadi e “Licorice pizza” di Paul Thomas Anderson. Piano piano, la chiesa sta ritornando al centro del villaggio. Anche i meno vocati di noi hanno dovuto in questi due anni affidarsi alle televisioni (che hanno arricchito l’offerta) e alle piattaforme (che l’hanno enormemente sviluppata, specie sul fronte delle serie). Non basta concedere il 100% nell’utilizzo delle sale per vederle riempirsi di spettatori, per di più in mascherina nonostante il green pass (sacrosanto). E infatti l’accesso del pubblico in sala è ripreso molto lentamente e non pochi sono i cinema che tardano a riaprire dopo il confinamento.
Si sono intensificate quest’anno sia le operazioni di restauro cinematografico che la loro diffusione. In assenza dei film di maggiore impatto commerciale, i cinema hanno riaperto con meno pellicole, ma di migliore livello. Grazie a quelle istituzioni – su tutte la Cineteca di Bologna – che da anni dedicano risorse, passione e competenze a questo compito immane, ha ritrovato l’onore delle sale un certo numero di classici moderni: da Wong Kar Wai a Lynch, da Fellini a Godard.
Nell’anno dei festival digitalizzati (con pochi euro chiunque può seguire da casa le proiezioni), anche le piattaforme hanno dedicato a questo settore parti sempre più cospicue dei loro programmi e magazzini virtuali, oltre a favorire lo sviluppo di quelle produzioni sperimentali, anomale per tecniche o durata, tradizionalmente escluse dai canali ordinari della fruizione. Si va dai cortometraggi alle tecniche miste; da realizzazioni come il recente “Get back” (otto ore) di Peter Jackson sulla realizzazione dell’ultimo disco dei Beatles all’ottima serie di Zerocalcare (“Strappare lungo i bordi“), impensabili fuori dal contesto televisivo. Oggi, ma non da oggi, la televisione sta innegabilmente espandendo le possibilità del cinema; ne alimenta le risorse linguistiche ponendosi in primo piano nella elaborazione di nuove grammatiche e sintassi.
“THE FRENCH DISPATCH” L’OMAGGIO BEFFARDO
La sintesi cinematografica più brillante fra genio e divertimento la offre oggi l’americano Wes Anderson. Sostenuto da una tecnica incantevole e da una fantasia che sembra inesauribile, il suo gioco rischia ormai solo lo stallo del virtuosismo.
“The French Dispatch” è il supplemento settimanale dell’“Evening Sun”, quotidiano di Liberty, immaginaria località del Kansas. Distaccato in Francia, con redazione nella cittadina di “Ennui sur Blasè” (Noia sul Sussiego), la sua ragione sociale è stabilire un collegamento fra culture e popoli delle due sponde dell’Atlantico. Quando il suo direttore e fondatore Arthur Howitzer Jr muore, la redazione decide di rendergli omaggio con un ultimo numero speciale. Ultimo perché il bizzarro magnate ha disposto che alla sua morte cessino le pubblicazioni.
Di questo numero (scherzosamente ispirato al “New Yorker”, come manifesti e locandine lo sono alla grafica di Saul Steinberg) che raccoglie articoli di successo nella storia della rivista, il film illustra quattro servizi: 1) un reportage in bicicletta attraverso i quartieri popolari della cittadina (il reporter finisce nel fiume: il Blasé, appunto); 2) “Il capolavoro di cemento”: un ergastolano fuori di testa, con l’apporto di un’austera e bellissima guardia carceraria che gli fa da modella, dipinge giganteschi quadri (astratti) giudicati dalla critica di eccezionale valore e contesi dai collezionisti; 3) “Revisioni di un manifesto”: una reporter americana fra i moti del maggio ‘68 finisce a letto con un capo della rivolta a correggergli la periclitante sintassi di un fiero proclama; 4) il rapimento da parte di una banda di terroristi del figlioletto di un commissario è risolto dall’eccezionale valentia del cuoco (segue sanguinosissimo e coglionissimo blitz). Ognuno di questi reportages è ispirato ad un celebre articolo del New Yorker: “The days of Duveen” del ’51 quello sul pittore pazzo; “The events in may” (1968), il notebook parigino, ecc. Impressionante lo stuolo di attori coinvolti. C’è persino Henry Winkler, il Fonzie di “Happy days”. Accanto a nomi come Guillermo Del Toro (il pittore pazzo), Léa Seydoux (la sua modella), Francis McDormand (la reporter parigina) e mille altri.
Non esiste oggi autore dallo stile più immediatamente riconoscibile di quello di Wes Anderson (che scrive le sue sceneggiature con l’inseparabile Roman Coppola, figlio di tanto padre). E neanche più organicamente moderno. Nessun genere manca, dal documentario all’animazione, al musical, alla fantascienza, al polar (police + noir), ognuno nel beffardo, felicissimo stile dello stralunato regista texano.
Come certi maestri del fumetto, ad esempio il nostro Altan, Anderson utilizza lo schermo come una tavolozza, mettendo continuamente in discussione il centro dell’inquadratura e in conflitto fra loro, con musica ed immagini, le didascalie, i giochi di parole e le infinite squisitezze che spuntano come pop-up di commento e contrappunto in ogni angolo dello schermo. Forse è il cinema più cinema che ci sia, ma è di una tale densità concettuale e umoristica da rischiare il tout plein, lo scacco dello spettatore; l’attenzione del quale, passata la mezz’ora, rischia di venirne sopraffatta per la fatale, umana inadeguatezza a dominare e trattenere qualcosa di quel flusso incessante di battute e annotazioni. Fino ad arrendersi, lasciare gli ormeggi e abbandonarsi al divertimento e al gusto, trattenendo l’essenziale. Forse anche, non tanto paradossalmente, un po’ stufandosi. All’uscita, un dubbio ci assilla (si fa per dire): quello di avere assistito ad un divertissement intellettuale irresistibile (fin troppo), ma di suprema, brillantissima futilità. Di aver partecipato ad un gioco che, giunto al suo apice, rischia di mostrare le tracce di una smagliante corda.La critica italiana ha preso sul serio le parole del regista, che dice di aver girato questo film per esprimere la sua devozione al giornalismo (soprattutto americano) e al cinema francese ed europeo. Anzi, proprio alla Francia tutta, paese e cultura che più di ogni altra sarebbero nel suo cuore. Ma l’impressione che lascia il film è quella di un’elegantissima beffa. Moderni Bouvard e Pécuchet – i due scrivani di Flaubert che affrontano, mettendole comicamente alla prova, le scemenze e i luoghi comuni di tanta letteratura divulgativa, anticipatrice delle fesserie di internet nei vari campi del sapere – i due brillanti amici sembrano fare sfoggio di flaubertiano esprit. Ma non ci vuole molto ad accorgersi che per quei fili passa la corrente bifase dell’amore per la Francia, sì, ma anche di una corrosiva ironia nei confronti delle principali mitologie francesi, da Sartre in giù. Con l’aria sorniona e un po’ alleniana dell’”Idiota di famiglia” (la biografia sartriana di Flaubert) i due burloni, il dandy e l’italo americano devoti all’Europa, servono in tavola con sfrenata allegria i più tradizionali wiz degli americani sui nipotini di Asterix. Sfottono, i nostri amici, e come. Sfoggiando da par loro lo spirito dei Simpson.
NAPOLI MILIONARIA
Nell’Italia tagliata a metà in cui rinasceva il nostro cinema, il neorealismo si chinava su Napoli, esclusa dall’epopea resistenziale (il film di Nanni Loy sulle Quattro Giornate sarebbe arrivato vent’anni dopo) con grande amore e partecipazione. Il ventre di Napoli, “spalancato” come quello “di un’enorme cicala” (Pasolini), dolore e paesaggio, suggeriva le immagini di “Paisà” e di “Sciuscià” a due maestri e ai loro grandi sceneggiatori. Da dentro, Napoli parlava con la voce di Eduardo (“Napoli milionaria”), la grande voce teatrale e poetica di una “Napoli nobilissima” a cui nessuno faceva troppo caso nel trip umanitario dell’Italia migliore, che posava sull’ex capitale borbonica qualcosa dell’occhio messianico con cui molti anni dopo Pasolini avrebbe guardato all’Africa. Il trip sarebbe diventato sociologico (lo “sviluppo del Mezzogiorno”) più tardi, quando i meridionali al nord, che avevano portato sulle spalle molto del peso del miracolo economico, avrebbero innervato le istituzioni culturali, economiche e politiche; giornali, editoria e TV. Se Venezia è il “luogo comune della malinconia”, come canta Francesco De Gregori, Napoli lo sarebbe diventato della nostalgia (amara terra mia), del colore (i napoletani sono attori nati; sì, e i negri hanno il ritmo nel sangue, avrebbe chiosato Scola), del bozzetto filosofico e vitalistico (la Napoli di Marotta – “L’oro di Napoli”, “Ieri, oggi, domani” – che anticipa quella, minore, di Bellavista). In mezzo – prima che Napoli cominciasse, con Roberto Saviano ma non solo, a raccontare sé stessa, sottraendosi al racconto degli altri e alle “captatio benevolentiae” (“vorrei essere napoletana” diceva Lina Wertmuller) – solo la grande parentesi artistica di Francesco Rosi (“La sfida”, “Le mani sulla città”) e quella politica di un grande sindaco (Maurizio Valenzi).
Nel 1997, quando nasce, Gomorra è un libro. Diventerà un film (2008) e poi una serie televisiva che dal 2014 gira il mondo. Capisco Antonio Capuano, che la detesta perché, dice, ha riempito Napoli di piccoli mostri che si atteggiano, vestono, parlano, si pettinano come personaggi di Gomorra, anche i miti e gli inermi. Ma con Roberto Saviano, in attesa che entri a regime il meccanismo autocritico delle parodie, Napoli diventa il soggetto della propria mediatizzazione. Oggi Napoli è un laboratorio culturale da cui esce – ben oltre Gomorra – il meglio del racconto cinematografico in Italia. Come è stato sempre per il teatro, la musica, le arti.
Paolo Sorrentino, che rievoca in “E’ stata la mano di Dio” una Napoli del figlio lontano, più solare del solito, illuminata dal rimpianto per la perdita dei genitori a 17 anni, con il laboratorio Napoli c’entra fino a un certo punto e comunque si promuove da sé (è già su Netflix). Il film è piaciuto molto. C’è qualche scoria delle sue (Il San Gennaro di Enzo Decaro, i monacelli, un’iniziazione diciamo singolare – che dubito sia stata la sua) e qualche fissa (le donne in età fertile o sono bellissime e matte o sono enormi e poco simpatiche, mamma esclusa). Piaccia o meno (Sorrentino si ama o si odia; personalmente non ho ancora deciso, ma sono per la linea mediana) è il nostro autore più internazionale e bene si è fatto a candidarlo all’Oscar, già vinto meritatamente con “La grande bellezza”. Ma i film di Mario Martone (“Qui rido io”, sul teatro e la Napoli di Scarpetta e sul famoso processo che lo vide opposto a Gabriele D’Annunzio), Leonardo Di Costanzo (“Ariaferma”, molto più di un film carcerario, con un duetto di attori – Toni Servillo e Silvio Orlando, immensi – di quelli che non ricordavamo più dai tempi della “Grande Guerra”) e Antonio Capuano (“Il buco in testa”, storia torrese – Torre Annunziata – della figlia postuma di Antonio Custrà, il poliziotto ucciso a Milano nel ’77 a una manifestazione di autonomi, e dell’incontro avuto con l’assassino quarant’anni dopo; storia, anche, di un’arcinota fotografia e titolo che sembra trucido ma è metaforico: testa sta per mente), se non li avete visti ripescateli, cercateli, braccateli. Sono loro, stasera, i migliori che abbiamo
COME IN UN LIBRO SCRITTO MALE.
Bobbio, appennino piacentino. Nel locale Circolo dell’Unione, a due passi dalla grande villa in cui fu girato un film importante, cinque fratelli che vivono in città diverse si ritrovano per un pranzo. Il più piccolo, che ha convocato la riunione, ha 81 anni, la più grande quasi cento. Non si sono mai persi di vista, sono in buona salute. Hanno con sé figli, nipoti, mogli (le donne sono nubili). Erano in otto, da piccoli; fra Natale e Santo Stefano di un anno fatidico e lontano, il più piccolo, allora ventinovenne, si è impiccato. Per la prima volta da allora la famiglia è riunita a ricordarlo; per sciogliere un nodo che ancora la opprime. A tavola, come spesso dalle nostre parti. Misurandosi con il rimpianto, che c’è sempre, di non aver capito; con il fantasma delle gloriose aridità di quegli anni; con una ultima lettera scomparsa tanto tempo fa, che qualcuno ha distrutto e quasi nessuno ha letto. Ma anche con dolcezza e la difficile ma compiuta serenità del tempo passato. Persino humour. E’ lo spunto da cui muove “Marx può aspettare” l’ultimo, magnifico film di Marco Bellocchio, che questa riunione ha convocato ed era gemello dello scomparso. Non ne aveva mai davvero parlato, solo accennato indirettamente in un paio di film. A ottant’anni si è sentito pronto a farlo. E’ il film più bello visto quest’anno. Una famiglia grande e complessa, che nel tempo ha coltivato la sua unità, elabora una sua perdita, e la saluta, dopo un confronto non semplice. Si parla di tutto, anche con il divertimento e la leggerezza di queste reunion familiari. Non sfugge, come è naturale, il fatto che, vista l’età di tutti, non si sa se e quando ci sarà un’altra volta. C’è la sorella “sordomuta”, che però parla e sente (e se non sente è come se sentisse), che “difendendosi” dai molto laici fratelli spiega la sua personalissima idea di fede e speranza nell’aldilà (“Mi piacerebbe ritrovare la mamma, ecco questo sì. Dio no, non mi interessa, non sono curiosa di lui. La mamma sì, mi piacerebbe”). E c’è la cognata che ricorda la deposizione di Camillo dal suo patibolo. All’illusorio riparo degli occhiali, stringendolo ancora al petto, ricorda quando fu lei, nel muto strazio degli altri, ad accoglierlo fra le sue braccia dopo il taglio della corda e in quegli istanti, in quell’abbraccio, di averlo sentito, per un’ultima volta, ma davvero e per sempre, come un fratello. Ecco, se qualcuno mi domandasse di scegliere un’immagine da portare con sé dai film visti quest’anno, è questa. Questo gesto, questo abbraccio all’aria, queste parole mi porto dietro, di un anno di cinema che pure ne ha molte altre, di immagini da ricordare.