Sapevamo che non si può mai star tranquilli. Ma chi l’avrebbe mai immaginato, signora mia, che a quattro giorni dalle votazioni per l’elezione del Presidente, sarebbe uscito in tutte le biblio-video-media-teche italiane un film rumeno, segnalato dalla critica cinematografica italiana (e te pareva!), in cui l’iniqua parola “bunga-bunga” risuona, forte e chiara, fuori da una scuola nel processo farsa intentato da un pugno di scioperati (padri, madri e altri nullafacenti in stellette, orfani di cantieri) ad un’insegnante colpevole di un’ingenua, privatissima fesseria porno? Sta a vedere che adesso un film sbaraccato dai cinema in due settimane, finora presente solo su una piattaforma spagnola ignota ai più, diventa oggetto di sghignazzi e discussioni animate durante una delle cerimonie più sacre della nostra democrazia! Che tempi, mia cara! Si scherza, naturalmente. Ma cominciamo dall’inizio. E sul serio.
Senza faccia. In genere le maschere della commedia dell’arte non coprivano la bocca, anche se c’erano quelle che lo facevano, lasciando libero l’orifizio, come illustra la rassegna fotografica di Cesare Molinari (“La commedia dell’Arte”). Dario Fo nelle sue lezioni di teatro all’Argentina insegnava ai giovani attori a recitare con la maschera, ammonendoli però – sulla scorta di Ferruccio Soleri, il grande Arlecchino di Strehler – a guardarla con rispetto. Perché la maschera, alla lunga, “ti mangia la faccia”. Viene in mente questa lezione ammirando la bravura della simpatica protagonista di “Sesso sfortunato e follie porno” durante il “processo” cui viene sottoposta dai genitori dei suoi allievi nel giardino della scuola. Processo in cui il ruolo delle mascherine, come in tutto il film, è fondamentale. Ce ne sono di molto diverse, di maschere, nella pellicola del rumeno Radu Jude, vincitore dell’ultimo festival di Berlino. Alcune sono un malizioso presidio di sfrontatezza; altre, la maggioranza, una triste necessità. A volte, uno strumento di sopraffazione.
PARODIA DI UN FILM POPOLARE. (SESSO SFORTUNATO O FOLLIE PORNO, di Radu Jude)
“Il nous fallut bien du talent
Pour être vieux sans être adultes”.
(Jacques Brel: “La chanson des vieux amants”)
Il prologo può far pensare di aver sbagliato sala. O a uno spam di internet sull’onda del titolo. Un uomo e una donna (marito e moglie, sapremo) si esibiscono in un filmino autoprodotto, in totale libertà. Nessuno dei fondamentali dell’erotismo – che, con buona pace dei devoti del kamasutra, non sono poi moltissimi – manca in questo frammento di tre minuti (o meglio, manca il primo che verrebbe in mente, ma le fantasie dell’hard domestico, si sa, trascurano spesso l’ordinario per l’eccentrico). C’è anche, fuori contesto, il bonus di una buffa parentesi sadomaso, vistosamente scherzosa. Musica di accompagnamento: “Lili Marleen”
Brecht a Bucarest. Il film, parabola brechtiana in tre parti, inizia sulle spiritose note e i funambolismi verbali di “Eh, Toto”, di Boby Lapointe, l’amico di Brassens maestro di queste filastrocche. La prima parte, “Via a senso unico”, è puro cinema verità. La protagonista del filmino è un’insegnante di scuola media: lettere e storia. Il video è finito su “Porn Hub”, postato – sembra – dal marito (ma non è importante, probabilmente erano d’accordo). Prima che venisse tolto, la madre di un suo allievo lo ha scaricato (!) e pretende un “processo” scolastico all’insegnante. Vuole mostrarlo a tutti i genitori, come prova della sua indegnità. Pare l’abbiano visto tutti, genitori e bambini (tutti su “Porn Hub”? Ohibò). Nell’attesa ansiosa del processo, fissato per il pomeriggio, la donna attraversa a piedi una Bucarest post sovietica, disastrata e incazzata, popolata di mascherine. Lungo strade affollate: mercato dei fiori, negozi di giocattoli (ha bimbi piccoli), edicole, librerie (compra “Spoon River”), farmacie (cerca, senza ricetta, un tranquillante), manifesti elettorali e commerciali, risentimento diffuso (tutti ti mandano a quel paese con un linguaggio da troie) e sopraffazione stradale (ognuno fa quel che gli pare e se protesti ti mette sotto; senza conseguenze ma non per finta). Un’anziana signora con borsa della spesa, passando davanti all’operatore guarda in macchina e lo apostrofa con una frase incredibilmente volgare, detta come un buongiorno. Brutta bestia, la vecchiaia; lo dice anche il Mahābhārata, nella citazione posta in esergo al film.
La seconda parte (“Breve dizionario di aneddoti, cartelli e meraviglie) è una riflessione sulla storia rumena, tra fascismo, comunismo e un post comunismo strozzato. Un viaggio di sferzante ironia in quel malmostoso riemergere di pulsioni reazionarie e fasciste, con stracci di antisemitismo (c’è chi lo chiama patriottismo), persino di simpatia per le passate complicità collaborazioniste col terzo Reich (che almeno li aveva liberati dagli zingari), divenuto paradossale sentimento identitario di molta parte del mondo ex sovietico.
La terza (“Prassi e insinuazioni. Sitcom”), è il processo, in cui l’insegnante dovrà sostenere – lo farà con sincerità e vigore – le accuse dei genitori scandalizzati non dalla scoperta che i figli dodicenni frequentino Porn hub, ma dal fatto che (sia pure per un atto di esibizionismo avventato e un po’ fesso) un’adulta abbia condiviso un filmino porno su un sito per adulti, facendo in fondo i fatti suoi. Senza alcun pregiudizio delle sue qualità di educatrice. E’ un processo che va seguito, perché ricco di finezze, di stomachevoli ipocrisie, di piccole viltà e minime virtù, con un finale comico, simbolicamente vendicativo, che sembra citare “Arancia meccanica”.
Radu Jude ha 44 anni, ma i suoi debiti cinematografici sono tutti anni ’60, francesi e tedeschi. Infatti è già un beniamino dei grandi festival europei. Numerosi nel film sono i riferimenti a Wenders-nelle-città, alla Francia di Jean Rouch e Agnès Varda (“Cléo dalle 5 alle 7”, la lunga camminata per Parigi), a Godard (“Due o tre cose che so di lei”, i cartelli, i manifesti, le vetrine, i giornali e gli schermi, le didascalie) e Boby Lapointe, il piccolo autore di culto della chanson portato via dal cancro a cinquant’anni nel 1960. C’è anche nonno Courbet: “L’origine du monde”. La seconda parte ricorda ai meno giovani il brechtismo e le atmosfere del vecchio Alexander Kluge (novant’anni fra un mese, auguri), l’autore di “Artisti sotto la tenda del circo, perplessi”, ultimo Leone d’oro (1968) prima della dodecennale abolizione dei premi al Lido; da noi uscito solo in volume (sceneggiatura, commenti e foto) a cura di Pier Paolo Pasolini. “Sesso sfortunato e follie porno” è uscito. Non per molto, ma è uscito, vietato ovviamente ai minori di 18 anni. Da oggi, 20 gennaio, è disponibile in DVD. Per tutti i talentuosi che, come i vecchi amanti di Jacques Brel, sono riusciti ad invecchiare senza diventare adulti.
MONTECRISTO FRA I FILI. UNO SPECIAL MOLTO SPECIALE. (“BO BURNHAM: INSIDE”, di Bo Burnham)
“Obama ha mandato gli immigrati
A vaccinare i vostri figli”.
(Bo Burnham, “Welcome to Internet”).
Non dice molto, in Italia, il suo nome. E invece qualcosa dovrebbe dire, almeno a chi ha visto “Una donna promettente”, di Emerald Fennel (Oscar per la sceneggiatura), che una buona considerazione si era meritato qualche mese fa. Di quel film, Burnham era il protagonista maschile: il giovane pediatra che conquista l’attenzione della protagonista Carey Mulligan (taccio sugli sviluppi), riuscendo per qualche tempo a distrarla da quel divorante proposito di vendicare il crimine compiuto anni prima su un’amica da una banda di mascalzoni upper class. Ma non è un attore di cinema Burnham. Non in particolare.
Il trentenne Bo (Robert) Burnham è un fenomeno squisitamente americano: uno stand up comedian, un entartainer, un ottimo cantautore dalla vena fluviale; nato su internet dodici anni fa e passato al teatro. Un animale da scena che da solo su un palco intrattiene il suo pubblico per due ore cantando, suonando, recitando, provocando, ballando. Facendolo pensare e sbellicare. Non c’è un corrispondente italiano. E non è affatto sicuro che la sua comicità farebbe altrettanto ridere noi.
Sei anni fa il giovane cantacomico cominciò a soffrire di crisi di panico in scena. Brutto affare per chiunque, invalidante per chi fa quel mestiere. Ritiratosi con la sua bella (l’italo americana Lorene Scafaria, più o meno un suo corrispondente femminile) per curarsi, dopo cinque anni, quando era pronto per il grande rientro, ha trovato ad attenderlo la pandemia. Il tempo di pensarci, e ne ha fatto la scena del suo special (oggi su Netflix), dedicato a Lor. Chiuso in casa? E sia.
Los Angeles. Un uomo entra, dal giardino di casa sua, in quello che potrebbe essere il garage. Potrebbe, se il pavimento non fosse uno splendido parquet e i muri non fossero tinteggiati di fresco. Addossati alle pareti lunghe, si fronteggiano un tavolo e un mobile; al centro, un piano elettronico. Lampade, ventilatore al soffitto, un condizionatore d’aria. Nel tempo, chiusa la porta, questo spazio diventerà come nella foto: cavi su cavi, riflettori, telecamera, strumenti di registrazione. Fornelli. Un letto (a divano). Un piccolo, caotico studio televisivo autogestito, ma anche una tana. L’uomo parla, canta, balla davanti al suo pubblico invisibile; suona, avvertendo il ridicolo di parlare a qualcuno che non c’è, che non ride. Come un paradossale Conte di Montecristo vedrà crescere barba e capelli nei mesi trascorsi lì dentro a registrare il suo spettacolo. I bersagli sono quelli della cultura liberal americana: Internet, il patriottismo americano, Jeff Bezos, le costrizioni e le meschinità del “politically correct”, le follie del web. In più ci sono i momenti di depressione, ospiti indesiderati e inquietanti, scacciati con uno sberleffo.
“Bo Burnham: Inside” è un oggetto misterioso. Un film? Un video concept album? Un’opera pop? Fuori ci sono la casa, una donna, il giardino. Un taglio di luce dalla porta ne filtra la presenza. Che sia una messinscena è ovvio: due ore scarse in cui trovano posto mesi di lockdown. Prima con simpatia, poi con crescente disagio, con la fatica, infine, di un sorriso, Burnham ci mostra che povera, nevrotica cosa sia un attore senza il suo pubblico. La sua esasperazione del solipsismo artistico è il grido che proclama, con quel filo di angoscia sottotraccia tipico della comicità – mattatoriale e sovratono – di questi artisti americani, l’insostituibilità dell’outside nello scambio con i nostri beniamini, anche quelli conosciuti in rete. Quanto sia importante per loro il nostro abbraccio. Quanto sia importante per noi.
I VINI DOLCI. (“8, RUE DE L’HUMANITE’”, di Dany Boon)
“E il Paradiso? Esiste un paradiso?”
“Credo di sì, signora, ma i vini dolci non li vuol più nessuno”.
(Eugenio Montale, Satura, Mondadori, 1971, dalla sezione Xenia II, 8)
Fra i film usciti dopo la prima ondata Covid-19, quando ancora si fantasticava di un’uscita relativamente rapida dalla pandemia e si aveva voglia di parlarne con sorridente serietà (quindi, visti oggi, o insopportabili o struggenti), ce n’è uno, a mio parere delizioso, che vale ampiamente il click su Netflix (non è uscito al cinema) e le due ore un po’ abbondanti di visione. Che, come sanno i fan delle serie – che hanno sfondato le molle della poltrona davanti al video – pesano più al cinema che in TV. Siccome nessuno ne ha parlato da noi, a parte qualche giovane sopraccilioso del web per cui la levità nelle questioni serie è un atto di diserzione, ne parlo io. Si chiama “8, Rue de l’humanité” ed è di Dany Boon, uno specialista.
Dany Boon è il nome d’arte di Daniel Hamidou, regista e attore comico di origine algerina, che vanta il maggiore successo commerciale francese di tutti i tempi (più di 20 milioni di spettatori: Zalone gli fa un baffo): quel “Giù al nord”, che avuto due remake italiani, chiaramente speculari, “Benvenuti al Sud” e “Benvenuti al Nord”, entrambi di Luca Miniero. Migliore, il primo, della media dei film del genere; in linea il secondo (quindi più modesto). Il primo rendeva apertamente omaggio, con un cameo, al Mida francese. E’ difficile immaginare qualcosa di più diverso di “8, Rue de l’Humanité” – spiritoso, gentile e alla fine persino toccante (un lusso) – rispetto alla commedia all’italiana come la intende Enrico Vanzina in “Lockdown all’italiana”, il vincitore della corsa a primo film sulla pandemia (ottobre 2020).
Solo tre o quattro degli attori dell’ottimo cast hanno una voce su Wikipedia. Bisogna andare su quella francese – o perfino inglese – per trovare biografie spesso interessanti e in almeno un caso straordinarie. Come quella della parigina Liliane Rovere (il cognome italiano è quello da sposata), la strepitosa ottantottenne che gestisce il bar (chiuso) di Via dell’umanità, 8: decine di film di tutto riguardo, compagna di Chet Baker in America negli anni cinquanta, beniamina di Bertrand Tavernier, a teatro con Strindberg e Ionesco, ancora attivissima (la serie “Chiami il mio agente”), oggi anche in politica come supporter di Jean Luc Mélenchon. Ma è un piacere vederli all’opera tutti: scherzare sugli applausi al balcone, sulla paranoia da Covid, sugli analisti improvvisati (il proverbiale scienziato pazzo, con tanto di irto crine, con il suo laboratorio di analisi; pazzo ma non scemo, come si vedrà in una gag impagabile: lo scemo è un altro). E poi la dottoressa che si isola, giustamente, e viene fraintesa e sospettata, in quanto magrebina; il portiere amico di tutti; la cantautrice folk teneramente impegnata che ha composto una canzone sulla pandemia che è uno spasso (“Pandemia, Pandemia”). Chi ha figli dell’età giusta ricorderà la cantautrice animalista di “Friends” (“Gatto rognoso, troppo rognoso / che cos’hai sul muso”); ecco, siamo da quelle parti lì. Ma soprattutto l’imprevista solidarietà che si sviluppa in questa piccola, immaginaria enclave parigina, raccolta intorno a un cortile su cui affacciano due o tre palazzi, e le sue storie. “E il Paradiso? Esiste un paradiso?”, chiede la signora di Montale. Credo di no, signora. Per questo abbiamo i vini dolci. Teniamoceli cari, anche quando ne preferiamo altri.