“Persona non gradita”. Con queste parole fu bollato dal governo russo David Maria Sassoli, alla fine di aprile. Il presidente del Parlamento Europeo entrava così nella black list voluta da Putin, a causa delle sue ripetute prese di posizione in difesa dei diritti umani, e per la liberazione del dissidente Alexei Navalny.
“A quanto pare non sono il benvenuto al Cremlino. Un po’ lo sospettavo” commentò Sassoli. “E dal momento che non avevo chiesto di andare in Russia, penso che questa intimidazione sia diretta all’Istituzione che rappresento. Sia chiaro allora che nessuna sanzione, nessuna minaccia riuscirà a zittire me o il Parlamento europeo. Continueremo a difendere la libertà, la democrazia e i diritti umani. Ovunque siano violati”.
Con un post scriptum, che sembrava indirizzato a Vladimir Putin: “Come ha scritto Tolstoj, non c’è grandezza dove non c’è verità”.
C’è in queste poche righe tutta la forza di un profeta disarmato, che alla testa di un Parlamento con pochi poteri sfida lo zar della grande Russia, e gli sbatte in faccia Tolstoj. Sfoderando le armi che gli sono più congeniali: l’ironia e la cultura, la fermezza e la tenacia.
Perché sappiamo tutti come è andata a finire. Il 15 dicembre nell’aula di Strasburgo, David Sassoli ha consegnato il premio Sacharov a Daria, la figlia di Navalny, chiedendo la liberazione immediata e incondizionata del padre, ancora detenuto in Russia: “è una lotta per la dignità umana e per lo stato di diritto”. È stato questo l’ultimo atto politico della sua presidenza.
Una presidenza che ricorderemo. Ottenuta a sorpresa, perché i complicati incastri della geopolitica non prevedevano che a un italiano (Antonio Tajani) potesse succedere un altro italiano. Ma David, in dieci anni di Europarlamento, si era conquistato la stima e il rispetto anche degli altri gruppi politici.
Il suo discorso d’investitura fu memorabile. Andrebbe letto nelle scuole, accanto al Manifesto di Ventotene.
“Ripetiamolo – disse – perché sia chiaro a tutti, che in Europa nessun governo può uccidere… che da noi nessuno può tappare la bocca agli oppositori.. che nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica.. che da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni.. che nessun europeo può essere umiliato ed emarginato per il proprio orientamento sessuale… che la difesa della vita di chiunque si trovi in pericolo è un dovere stabilito dai Trattati e dalle Convenzioni internazionali”.
E ancora: “La nostra libertà è figlia della giustizia che sapremo conquistare e della solidarietà che sapremo sviluppare”.
Libertà, solidarietà, giustizia. Con le parole, e con i fatti, Sassoli sarebbe riuscito giorno dopo giorno a valorizzare il ruolo di un’istituzione nata nel cuore d’Europa lacerato dalle guerre, perché di guerre non ce ne fossero più.
Un’utopia realizzata, ma anche una Babele di settecento deputati che parlano 24 lingue diverse. “Ma noi non siamo un incidente della Storia” ripeteva.
E per far capire quanto l’Europa della pace e dei diritti fosse lontana dal vento dell’Est, dalle pulsioni autoritarie e illiberali, a luglio l’italiano Sassoli e la tedesca Ursula Von der Leyen visitarono insieme il campo di concentramento di Fossoli. “Se perdessimo i valori di chi qui ha combattuto ed è morto – dissero – l’Europa non sarebbe più nulla”.
Anche da politico, da uomo delle istituzioni europee, Davide restava un giornalista. Gli piaceva cercare la notizia nel fumo dei discorsi. Scegliere le parole esatte, l’immagine giusta, la narrazione efficace ma senza retorica.
Non eravamo amici – termine che implica una consuetudine ben più profonda – ma gemelli diversi, che amavano Bach e De André. I nostri genitori avevano lavorato nella stessa redazione; noi ci siamo incrociati più volte, mi pare anche su queste pagine, nel gruppo di “TUTTI”.
Trent’anni fa, cominciavamo insieme l’avventura in televisione: io al Tg5 di Enrico Mentana, lui al Tg3 di Sandro Curzi. Da lì poi passo al Tg2 e quasi subito al Tg1. Un giorno ci ritrovammo a condurre le edizioni di punta di quei telegiornali. Quando facevamo due passi per prendere un caffè la gente ci riconosceva, ci chiedeva un autografo (nessuno aveva inventato gli smartphone e i selfie, per fortuna). Ci scherzavamo su: David spopolava tra le signore, io – che avevo un pubblico più giovane – tra le scolaresche in gita nella Capitale.
C’era un po’ d’imbarazzo, perché non ci sentivamo affatto delle star. David era contento quando gli facevano i complimenti non per gli occhi cerulei, ma per il modo che aveva di presentare le notizie, con chiarezza e con garbo. Il conduttore di un Tg è come un centravanti, quello che ci mette la faccia e deve buttare la palla in rete. Ma per farlo deve avere alle spalle una squadra che gioca bene, un collettivo che lo metta in condizione di segnare.
David lo sapeva, perché amava il calcio. Aveva i piedi buoni e non se la cavava affatto male. Esperienza accumulata in quelle partitelle nei campi scout, dove le porte erano segnate dagli zaini, non c’erano pali né reti, e il pallone finiva sempre in una scarpata.
“Voglio entrare al posto di Sassoli”. Stavamo giocando un derby per beneficenza, in un circolo romano. E la voce cavernosa era quella di Ignazio La Russa, arrivato a partita iniziata. David sorrise: “Pur di vederti giocare con la maglia della Roma, io mi metterei anche in porta”. Tutti sanno infatti che La Russa è un tifoso interista: ma quello era il derby capitolino, e gli avevano dato una maglietta giallorossa. David gli lasciò il posto, anche perché le sigarette non gli concedevano molto fiato, e si mise a dar consigli dalla panchina. Perché era fatto così: era inclusivo, era un uomo-squadra.
Amava parlare con tutti, anche con chi era più lontano da lui. E sempre guardandoti negli occhi. Con quello sguardo sorridente, limpido e diretto.
Ma sui princìpi, su quelli non arretrava di un centimetro. E con mitezza, con garbo, sapeva farsi rispettare. Se n’è accorto Putin; se ne sono accorti a Bruxelles e a Strasburgo. Ha respinto gli assalti dei sovranisti, che lui spesso definiva per quello che sono: nazionalisti. Ha messo all’angolo i nemici dell’Europa, costruendo mattone dopo mattone la cosiddetta “maggioranza Ursula”: un ponte tra le forze progressiste e conservatrici, liberali e popolari, a sostegno della commissione Von der Leyen.
Alle spalle della sua scrivania al Tg1 c’era un manifesto di Gary Cooper, e la cosa mi colpì. Mi sarei aspettato, che so, una foto di Aldo Moro o di Papa Wojtyla. E invece c’era quell’attore americano, che in Per chi suona la campana esortava a non aver paura: “Preoccuparsi rende solo le cose più difficili”..
E sul lavoro David era così, apparentemente calmo, sicuro, caparbio come lo sceriffo Will di Mezzogiorno di fuoco. Sempre determinato, e con il sorriso sulle labbra. Non l’ho mai sentito parlar male, di quei pochi che gli volevano male.
Lo aiutavano la fede profonda e la solida cultura, frutto di migliaia di letture sui più vari argomenti. Per capire la scuola in cui era cresciuto bisogna ricordare quel che il padre Domenico diceva ai redattori della Discussione, il settimanale della Dc: “Al di là della routine quotidiana, ogni giornalista dovrebbe dedicare un paio d’ore al giorno allo studio e alla ricerca”.
Leggere, approfondire, documentarsi. Come ha sempre fatto David, fin da ragazzo. Nei movimenti studenteschi, nei gruppi scout, in prima fila nel volontariato, con Matteo Zuppi, compagno di liceo, non ancora cardinale e nemmeno sacerdote, alle mense di Sant’Egidio.
Quando scoppiò la pandemia, due anni fa, Sassoli si preoccupò di non tenere mai chiuso il Parlamento Europeo. E anzi aprì le sue porte ai meno fortunati, ai senza tetto, alle donne vittime di violenza. Ricordandosi forse delle parole di don Tonino Bello. Quale può essere il compito di un politico, se non “organizzare la speranza”?
“Ci ha insegnato che l’Europa sono persone. Sono anime” ha detto il segretario del Pd Enrico Letta, commemorandolo nell’aula di Strasburgo.
Persone, non numeri. La lezione di Mounier, coniugata all’ombra del cattolicesimo democratico, con maestri come Pietro Scoppola e fratelli maggiori come Paolo Giuntella. In associazioni che si chiamavano “Lega democratica” o “Rosa bianca”, quella dei giovani di Monaco che volevano abbattere il nazismo distribuendo volantini, con metodi rigorosamente non violenti. Una storia struggente, come i versi di Josè Marti e la chitarra di Sergio Endrigo
“Coltivo una rosa bianca, in luglio come in gennaio
Per l’amico sincero, che mi dà la sua mano franca
Per chi mi vuol male, e mi strappa il cuore con cui vivo
Né cardo né ortica coltivo
Coltivo una rosa bianca”
E non sono parole di un frate missionario. Ma di un politico e di un rivoluzionario.