Da qualche tempo sappiamo, come ci ricorda Jose Luis Gotor, noto studioso dei rapporti letterari ispano-italiani, che Don Chisciotte (riportandoci alla conclusione di Papini) «non appartiene soltanto a Cervantes, ma, per legittimazione riconosciuta, all’Unamuno»; ma avvertiamo anche come egli appartenga di diritto anche a Bruno Caruso, ai suoi disegni cervantini dall’impatto visionario e realistico scosso da tremiti continui soprattutto nei suoi due disegni: El caballero de la triste figura (Don Quijote), e il compiuto Cervantes a Napoli. Qui, il deporsi di un feroce velo di tristizia è pronto a svelare, dal sogno o dalla follia, quell’anima sporta dai volti segnati, dalla integra forza fatta di esangue corporeità, di voci silenti: un discendere, da tale climax, in un tappeto di parole semplici, umane. E Cervantes, alias Don Quijote, appartenne per gli stessi motivi anche ad Antonio Veneziano (Monreale 1543-Palermo 1593). Risuonano ancor oggi le parole – intense, se pur dettate dall’occasione, abitate da scarna semplicità – chiaramente incise nella lapide commemorativa fissata sulla pietra del quartiere del Pozzillo (nel centro storico di Monreale) a ricordo dell’abitazione del cantore di Celia: “Silenzio ǀ di campi verdi ǀ sorriso di cielo e di mare ǀ resero cara ǀ questa avita casetta ǀ ad Antonio Veneziano ǀ poeta sommo ǀ nel sec. XVI” . La data è il 1906, la firma è quella del suo colto biografo: Gaetano Millunzi. Ed è il Millunzi, nel suo Il poeta Antonio Veneziano del 1894, a rammentare il triste periodo trascorso dal ‘Siculo Petrarca’ nelle prigioni di Algeri, e come al suo ritorno, in seguito al riscatto offerto dal Senato palermitano, gridasse al mondo, nell’inviare a Pietro Montaperto i suoi «Emblemi» per gli archi trionfali, composti in occasione dell’arrivo del viceré Marco Antonio Colonna, quei passionali accenti: «quando cattivai, avendo perduto quanto avea, non potei tutta volta restar sì ignudo che potessi esser spogliato dei bei pensieri dell’animo». Certo nessun nobile pensiero poteva essere trafugato, imprigionato, dall’animo esuberante del poeta ucciso, una decina d’anni più tardi (1593) dalla sua liberazione, nello scoppio del Castello a Mare, in cui la terra – così narrano i Diari del Di Marzo – fu come investita da un terremoto: due dammusi stipati di polvere saltano misteriosamente per aria. Il poeta di Monreale, con il sodale Argisto Giuffredi, chiuderà tragicamente la sua tribolata esistenza. «Quanto tempo sia stato in cattività – annota Millunzi – non possiamo neppure determinarlo con precisione; però il 6 novembre 1579 il primo libro della Celia era già compito, e Michele Cervantes gli inviava una lettera ed una poesia». La conoscenza tra Cervantes e Veneziano non poteva, per destino, essere più consacrata se non col subire la medesima ‘cattività’ nelle prigioni d’Algeri: due poeti, animosamente toccati da eventi giudiziari, sollecitati dalla loro scrittura a leggere in maniera esemplarmente astratta, ma pertinente alla umana realtà, le vicende della loro travagliata vita, la pena e la sublimazione del loro animo, il flusso dei loro sogni. Il ragguaglio di Salvatore Salomone Marino elaborato nel 1897 da documenti sepolti all’Archivio di Stato di Palermo (Memoriali e Consulte, marzo ed aprile 1573 e 1574 [fogli 154-162 v.]) tracciano il resoconto d’un atto di pirateria registrato nel 1573 nelle spiagge palermitane, e, ancora, come dal ragguaglio di Don Pietro Antonio Tornamira (Relatione della presa di due galere della squadra di Sicilia, fatta dalle galeotte di Aligeri, 1674), si narri di otto galeotte algerine e della loro presa di due galere siciliane naviganti alla volta della corte di Spagna nell’anno di grazia 1578, in una delle quali v’era imbarcato Antonio Veneziano al seguito del Presidente del regno Don Carlos de Aragόn, duca di Terranova. Gli assalti barbareschi erano frequenti, tanto che “parrebbe incredibile” annota il patologo medico e folklorista di Borgetto: «ma è un fatto che, proprio al domani della battaglia di Lepanto, che portò tanta ruina e tanto sgomento ai Turchi e tanta trionfale preda e tanta baldanza ai Cristiani, proprio allora, che nei mari di Sicilia c’era la potente e vittoriosa flotta di Don Giovanni d’Austria, i Turchi osassero spingersi per le solite piraterie ai lidi siciliani e fin a Mondello, a pochi passi dalla stessa Palermo, nel cui porto svernavano le galere del Regno».
È il 25 aprile del 1578 quando, appunto, la galera Sant’Angelo, scortata da quaranta soldati per imbarcazione, con a bordo il trentunenne poeta monrealese, al suono “di trombe, pifferi e tamburi” salpa per le perigliose rotte mediterranee costeggiando il Capo Buongerbino e, dirigendosi verso Napoli, per poi drizzare la prua alla volta dei lidi iberici. Antonio, invece, con altri viaggiatori si ritroverà, tre giorni dopo, oggetto d’arrembaggio, e, reso in schiavitù,viene trascinato nelle prigioni algerine: luogo di pena in cui però avverrà l’incontro e la nascita d’una partecipe amicizia con Miguel de Cervantes Saavedra, anch’egli recluso in attesa di riscatto. Durante tale prigionia il Veneziano comporrà il primo libro di ottave siciliane, Celia, canzuni amurusi, considerato da Ugo Antonio Amico, “canzoniere nobilissimo” (1894); ed ha poca importanza se sotto questo nome si ‘celi’ la bella nipote Eufemia de Calogero [di Colorio] o la misteriosa Isabella, ma su tale nome ardono le parole costruite ora nell’amore e per Amore, ora nel suo opposto sentimento cioè quel controverso disprezzo che il lutto della passione produce. Tale sostanza poetica di certo attrasse, e non poteva non essere altrimenti, lo scrittore di Alcalá de Henares. Il napoletano ispanista Eugenio Mele riporta anche, nella madrilena ‘Revista de Archivos Bibliotecas y Museos’ (1914), di come potrebbe essere presa in considerazione nella mente del Cervantes (con le dovute cautele), a “ricordo della poesia del siciliano”, quella possibile “trascrizione in prosa di un’ottava del Veneziano”, in cui, appunto, limpidamente affiora la “descrizione di una fanciulla trapanese che è nel El amante liberal”, nel corpus delle Novelas Exemplares del 1613, in cui, tra suggestioni petrarchesche e rimandi alla cromìa allegorica arabo-sicula, si legge: «Una di cui i poeti cantavano che aveva i capelli d’oro, che i suoi occhi erano splendenti, le sue guance rosa purpure, i suoi denti perle, le sue labbra rubini, il suo collo alabastro; e che ogni sua parte nel tutto e il tutto in ogni sua parte facevano stupenda e concentrata armonia». Il Cervantes scoperto, per la delazione dei compagni di carcere, mentre preparava un piano di fuga, subisce l’isolamento nella detenzione e l’aumento delle restrizioni; ed è in tale solitario e triste momento della sua sofferta esperienza di recluso che trova sollievo nella poesia, nella riflessione sul volto di Celia cantato dal Veneziano, ed elabora dodici componimenti che in seguito invierà all’amico siciliano.
È ormai noto che il 19 settembre del 1580 è firmato il riscatto per l’autore del Don Quijote; il 28 novembre dello stesso anno la presenza del Veneziano si registra a Monreale con la stipula di un contratto presso il notaio Antonino D’Agra, ed è risaputo di come il suo rientro in patria fosse stato accolto con grande giubilo dai palermitani, così testimoniano – riferisce l’Ortolani – i cronisti del tempo; ne fa per altro fede quella festa organizzata “in Palermo pillu ricattu, e ritornu di lu celebri poeta Vinizianu”. La lettera che accompagna le 12 ottave di Cervantes saranno inviate all’amico di Monreale; completate in data 6 novembre del 1579, mentre ancora il Cervantes versava in prigione; esse testimoniano del suo sincero apprezzamento, soprattutto avvalorato dai continui riferimenti in ambito creativo per quel gioco prospettico tra il nome di Celia e il suo accostamento a Cielo: «per Celia al Cielo empireo leuantaros»; «teniendo el alma en Celia, que es un Cielo»; «Cielo de Celia encierre un viuo infierno»; «por ti, Celia hermosa, en quien se auiua ǀ la luz que al Cielo alumbra y esclareçe», come pure per gli innesti di tali versi riscontrabili nella commedia El trato de Argel, che rievoca l’esperienza algerina. A questo dono poetico Antonio risponde con un sonetto in ‘stile pedantesco’ – rimarca Mele nel riferimento alla eponima commedia di Francesco Belo, Il pedante (1529) – in cui è la lingua che si erge nell’iperbole del protagonismo, qui toccato da un continiano “delirio verbale”, dove meno si notano le fibre accese del cuore. Per Miguel de Cervantes, infine, il verso di chiusura, usato da Antonio, lo invoca ridimensionando il tutto con icastica lieve planarità: «Medico, amico e dottor mio ter massimo».
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Veneziano: Due ottave siciliane (con ri-creazioni in lingua)
~ Dal canzoniere ‘Celia’ ~
1.La terrena mia Dia gloria, e curuna
La terrena mia Dia gloria, e curuna,
Di quantu l’arti, e la natura sghizza,
Lu suli ha l’occhi, a la facci la luna
L’arcu e li gigghia, e Cometa a ogni trizza;
Stiddi l’accenti, e li palori ogn’una
Sù nettari, ed ambrosia di ducizza,
M’invidia l’airu, Amuri, e la fortuna,
Ch’adoru in terra un celu di biddizza.
1.Ri-creazione:“Ecco la mia terrestre Dea: gloria e corona di tutto ciò che sgorga dall’arte e dalla natura. Guardate: il sole abita i suoi occhi mentre di luna è il suo volto. L’orizzonte disegna l’arco delle ciglia e le comete intessono le sue trecce. Da ogni gesto affiora una stella e ogni parola ha il sapore del nettare e la dolcezza dell’ambrosia. Perfino amore invidia l’aria che respiro vicino a lei, e la fortuna d’adorare in terra un così immenso cielo di meraviglie”. [a.g.]
- Su’ tutti grazij in vui li mancamenti
Su’ tutti grazij in vui li mancamenti,
E nun vi sdici mai cosa nisciuna;
Comu li macchi rari, e non lucenti
Fannu bedda la facci di la luna.
Iu di lu multu allegru, e di lu nenti
Satura fingiu la menti dijuna,
Puru a lu struzzu all’occhiu di li genti
Lu stissu ferru nutrimentu duna.
2.Ri-creazione:“Non c’è niente che possa farvi difetto; d’altronde le imperfezioni, in voi, si trasformano in grazie. Così come le macchie, non luminose e rare, rendono più ammaliante il volto della luna. Allo struzzo, per quanto non si creda, persino il ferro dà nutrimento. Così io mi ritrovo felice di niente e di poco: la stessa mente, pur vuota, la sento colma della vostra esistenza”. [a.g.]