Come tutte le crisi anche la seconda crisi ucraina passerà. Come esito più immediato si può dare per scontato che la Russia, ridotta nel 1991 ai termini della pace di Brest-Litovsk del 1918, “recupererà” qualcosa. Una tecnica è invadere e occupare più di ciò che effettivamente si vuole ottenere: ritiro contro cessione e acquiescenza. Non sempre però il gioco riesce.
Difficile ipotizzare una cessazione delle ostilità senza un qualche ampliamento territoriale e un consolidamento della sfera d’influenza di Mosca ai confini dell’Europa e della Nato. Ne va della sopravvivenza politica di Putin stesso.
La resistenza incontrata sul terreno e il materiale sostegno bellico dell’Europa e della Nato all’Ucraina hanno peraltro fatto saltare il modello “guerra lampo e cambio di regime”: i russi rischiano di infilarsi nel vicolo cieco di uno strisciante conflitto asimmetrico per procura che evidenzia tra l’altro le debolezze e arretratezze della loro macchina bellica.
L’evocazione della loro capacità nucleare, se si scarta l’ipotesi della follia, potrebbe essere un messaggio, abbastanza contorto, verso l’esterno – tipo: «esiste un assetto internazionale fondato sulla deterrenza nucleare di cui la Russia è elemento essenziale su base di parità, sotto il cui ombrello negoziare» – e una minaccia “non credibile” da sfruttare a fini interni, alimentando il mito della superiorità militare russa, cui ascrivere il merito dell’avvio di negoziati per il superamento della crisi e del loro successo.
Per un altro verso la mossa di Putin di invadere l’Ucraina è stata anche resa possibile dal fatto che l’Europa è gravata dall’ipoteca energetica russa. É un’arma a doppio taglio: noi abbiamo bisogno del gas russo, soluzioni alternative sono distanti. I russi hanno bisogno di venderci il loro gas, risorsa vitale per la loro economia e su cui si regge il consenso, dagli oligarchi in giù.
In una situazione del genere il livello di ritorsione che il Cremlino si poteva aspettare è sanzioni soft, come è poi avvenuto. In effetti siamo nella paradossale situazione di finanziare con i nostri acquisti di gas l’aggressore a pagarsi la sua guerra in Ucraina.
Il nuovo equilibrio sarà precario: le crisi non insorgono da un giorno all’altro e l’aggressione della Russia all’Ucraina ha radici profonde e molteplici.
In prospettiva andiamo verso una riedizione della guerra fredda. Che poi tanto fredda non era, se non nel senso che i conflitti tra i due blocchi avvenivano lontano da noi europei in altri teatri e tra l’altro neanche troppo per procura: basti pensare alla guerra di Corea e al Vietnam. Ma mai con il diretto coinvolgimento dell’Unione Sovietica.
L’aggressività russa, alimentata da un atavico senso di accerchiamento, lungi dal favorire quelle ulteriori “finlandizzazioni” e annessioni che a Mosca evidentemente si considerano essenziali per la propria sicurezza, si sta traducendo nella “de-neutralizzazione” di fatto di paesi europei che non fanno parte dell’Alleanza Atlantica.
L’isolamento russo rispetto all’Occidente si accresce. Ciò non impedisce affatto, come già durante la guerra fredda, i rapporti economici e commerciali, l’intensità dei quali non è in effetti comprimibile oltre una soglia superata la quale l’Europa precipiterebbe in una crisi devastante e dalle imprevedibili derive politico-sociali.
Per la Russia il bilancio della seconda crisi ucraina, al netto di acquisizioni territoriali e di un’estensione della propria sfera di influenza in un’area peraltro problematica e riottosa al fascino moscovita, potrebbe rivelare aspetti negativi: una campagna militare che non è stata una passeggiata e che anzi mette a nudo le criticità dell’apparato militare russo; l’aggravamento dell’isolamento internazionale della Russia cui resta solo la imperscrutabile sponda cinese; la inaspettata credibilità della risposta occidentale in termini di materiale sostegno all’Ucraina; segni di opposizione interna, anche se magari non sul “merito” ma sul “come”; difficoltà che potrebbero tradursi anche in un regolamento di conti. Tutti elementi che potrebbero concorrere a smorzare la propensione all’avventurismo di cui la guerra all’Ucraina è evidente espressione.
Putin può vantare come successo l’annessione della Crimea nel marzo 2014. Altro punto a suo favore è stato l’accordo con la Siria nel 2017 che ha esteso il controllo russo sulla base di Tartus per altri 49 anni: è il coronamento del progetto zarista di stabilire una presenza nel Mediterraneo.
Errore di valutazione è stato credere che la caduta del comunismo e la dissoluzione nel dell’Unione Sovietica nel 1990-1991 avrebbero spalancato le porte di una nuova fase nel rapporto tra Russia e Occidente. I sovietici avevano perseguito con pragmatismo gli stessi temi della politica estera zarista che inevitabilmente erano destinati a riemergere nell’era post-sovietica e che non necessariamente coincidono o sono facilmente compatibili con quelli dell’Europa e dell’Occidente.
Si può argomentare che si è a suo tempo persa un’occasione negli anni ’90 del secolo scorso per negoziare con la Russia un accordo che prevedesse stati di neutralità e statuti speciali per stabilizzare una regione in cui la presenza di forti minoranze poteva dare adito a rivendicazioni e futuri conflitti, come poi accaduto.
Guardando oltre, una prima considerazione è che il diritto al ricorso alla guerra come soluzione delle dispute internazionali – contemplato in astratto nel diritto internazionale pubblico generale non pattizio – non è affatto caduto in desuetudine rispetto al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Il problema è ovviamente il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza.
Non è una questione accademica bensì un dato di fatto che deve far riflettere. L’invasione dell’Ucraina resuscita definitivamente un principio che si pensava obsoleto – o se si preferisce, rafforza una consuetudine ormai invalsa – di cui le prossime manifestazioni potrebbero essere l’occupazione di Taiwan e atti di forza da parte della Cina per acquisire il controllo dello Stretto di Malacca, arteria vitale per l’economia mondiale.
Sempre a proposito di Cina, il Presidente ucraino Zelensky si è rivolto a Pechino per mediare con la Russia. Pechino è diventata la chiave per una soluzione “diplomatica” di un conflitto in terra europea provocato dalla Russia, entrando “politicamente” negli equilibri del Vecchio Continente. Dobbiamo rallegrarcene?
La Cina ha già un notevole leverage economico industriale nei confronti dell’Europa e dell’Occidente. Controlla gran parte delle materie prime – terre rare, litio – necessarie per l’attuazione della transizione verde. Non a caso si è affrettata a concludere un accordo anche con i talebani per lo sfruttamento di giacimenti in Afghanistan. É il maggior produttore di installazioni e componenti per il settore: è dalla Cina che vengono pale eoliche e pannelli solari; il suo attivismo in Africa, sempre per il controllo delle risorse naturali, ha assunto tratti neocolonialisti.
La Cina sarà sempre più la sponda strategica della Russia che resta, per l’Europa, un fornitore di energia difficilmente sostituibile nelle more di una transizione che si preannuncia lunga e difficile anche per le sue ricadute in termini di competitività della nostra industria sul mercato mondiale a fronte della concorrenza cinese.
Nel medio termine si può ipotizzare uno scenario dove il prezzo del gas russo – di cui il Cremlino controlla il rubinetto – resterà attestato a livelli molto elevati a tutto beneficio della Russia. Un alto prezzo del gas russo aiuta d’altra parte a rendere competitiva la transizione dai combustibili fossili alle rinnovabili. Il ragionamento alla base delle politiche europee per la riduzione delle emissioni è che occorre rendere competitive le rinnovabili rispetto ai combustibili fossili tramite meccanismi che incrementino il prezzo di questi ultimi. Per eterogenesi dei fini la crisi ucraina e la più che giustificata percezione della Russia come fornitore in grado di manipolare il mercato per fini politici, danno una mano alla transizione verde.
É opinione abbastanza diffusa che l’invasione dell’Ucraina sia espressione di quello che si potrebbe definire il “fattore Putin”. É una spiegazione troppo facile per essere convincente. La realtà è che nella Russia post comunista il messaggio che nell’arena politica riscuote maggior successo popolare ha comunque connotati nazionalisti.
Che fare?
Lo sviluppo di una efficace capacità di difesa europea è una questione che non può essere procrastinata. Senza di essa, nell’ipotesi di un’America isolazionista gli europei resterebbero completamente scoperti. Sotto questo profilo occorre anche tenere presente che la visione eurocentrica è superata sul piano globale. Il nuovo epicentro è l’area del Pacifico. Se noi europei vogliamo contribuire alla stabilità complessiva dovremmo assumerci una maggiore responsabilità per il mantenimento degli equilibri nella nostra regione.
L’Europa dovrebbe affrancarsi dalla eccessiva dipendenza energetica dalla Russia. Per paesi come l’Italia il nucleare dovrebbe essere una scelta obbligata. Occorrono peraltro tempi lunghi per realizzare centrali. Abbiamo anche la possibilità di sfruttare le nostre risorse di gas naturale e qualcosa si è già mosso in questo senso.
Lo sviluppo di fonti alternative di approvvigionamento energetico rafforzerebbe la posizione negoziale dell’Europa nei confronti della Russia sul piano non solo politico ma anche della sicurezza e dei prezzi delle forniture.