Parliamo delle donne italiane con l’avvocata Francesca Caretta di Modena, membro di Will, organizzazione internazionale di avvocati indipendenti, molto attiva nel settore della promozione delle donne, delle nostre capacità, dei problemi che incontriamo nella società, nel mondo del lavoro, in collaborazione con diverse Associazioni di volontariato.
Anche la lotta contro la violenza endemica contro le donne, le e ci sta molto a cuore.
Ma oggi mi ha proposto di approfondire un tema di cui si parla tanto, senza comprenderlo – forse – a pieno: le donne, l’istruzione e il mondo del lavoro.
Viviamo in un paese fortunato, dove l’istruzione non è preclusa alle donne. Ma….
Le ragazze italiane studiano molto: frequentano il liceo, anche se spesso provengono da famiglia con un livello di istruzione inferiore, prendono bei voti, dopo la maturità si iscrivono all’Università. Si impegnano, prendono voti molto alti, sono apprezzate dai professori, frequentano tirocini all’estero, avendo l’occasione di imparare ad affinare la conoscenza delle lingue straniere. Il 60% dei laureati in Italia sono ragazze, questo dato è recente, risale al 2020.
Cosa succede dopo la laurea: le donne si scontrano subito con il soffitto di cristallo?
Immediatamente, le donne fanno più fatica a trovare lavoro rispetto agli uomini della stessa età e formazione scolastica: l’86% delle laureate si inseriscono nel mondo del lavoro contro il 92% degli uomini. La pandemia ha allargato la forbice e non di poco.
Da cosa dipende?
Da un lato dal fatto che troppo spesso le ragazze non vengono incoraggiate – soprattutto dalla famiglia ma anche dalla scuola – a intraprendere i percorsi di studi STEM, dall’inglese science, technology, engineering and mathematics,: questo acronimo è utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) per le quali vi è ancora troppa diffidenza, anche se ultimamente le più giovani si stanno orientando sempre di più verso questa tipologia di studi.
Questo comporta che risulta oggettivamente più difficile un inserimento nel mondo del lavoro. Tale difficoltà va ad aggiungersi a quella contro la quale combattiamo da anni che vede – mediamente – il datore di lavoro orientarsi verso un uomo, che non ha il “problema” della maternità e della cura dei figli o dei genitori anziani.
Questo problema annoso è “scoppiato” con tutta la sua evidenza drammatica a causa dell’epidemia da Covid che ha visto moltissime donne perdere i propri contratti part time, quando li avevano, e il lavoro, visto che spesso operano nel settore dei servizi, che solo di recente ha potuto iniziare a riprendersi. Le altre, che lavorano in settori differenti, hanno dovuto tenersi in equilibrio tra lo smart working, le esigenze pressanti dei figli e le incombenze famigliari. Troppo spesso gli uomini continuano ad “aiutare”, ma non a collaborare in maniera paritaria. La situazione è stata una disfatta, anche psicologica.
Quindi la parità di genere in Italia è ancora lontana…
Beh, si pensi che secondo i dati più recenti con la pandemia abbiamo assistito al primo calo dell’occupazione femminile registrato dal 2013: sono quasi 2 milioni le donne costrette a quello che potremmo definire il part time “involontario”.
Ora il PNRR ha stanziato ingenti risorse per superare il gap, finanziando iniziative a sostegno delle donne e della famiglia e speriamo che questo porti a un cambiamento. Ma in Italia, paese che da sempre mette al centro la famiglia, in realtà appena lo 0,56% del bilancio dello Stato viene utilizzato per ridurre le diseguaglianze di genere.
E’ anche vero che forse le amministrazioni hanno difficoltà a distinguere tra “spese per ridurre i divari di genere”, “spese sensibili al genere” e “spese neutrali al genere”, come viene riportata da un articolo del giornale La Repubblica del 19 gennaio 2022: è una follia burocratica che va superata. Basterebbe chiedere alle donne di cosa hanno bisogno!
Eppure uno studio delle Nazioni Unite prevede che verrà raggiunta la parità di genere nel giro di pochi anni…
In Italia siamo ancora ben lontani da questo risultato, anche perché – oltre a quello che ho detto sopra, riguardo all’impiego delle donne soprattutto nel settore dei servizi – comunque le donne faticano molto a entrare nelle stanze dei bottoni, non assumono posizioni apicali, non prendono decisioni strategiche. Non incidono abbastanza.
Questo si riscontra anche nelle libere professioni, come nel mondo della professione legale, dove le donne sono la maggioranza…
Un recente studio del Consiglio Nazionale Forense CNF sui compensi degli avvocati, ha messo in luce un fenomeno singolare: all’inizio dell’attività non vi è disparità di compensi tra avvocate e avvocati, ma presto arriva la disillusione: nel giro di qualche anno la differenza arriva fino al 40/50% in meno per le donne, a parità di capacità, preparazione ed esperienza. Con rare eccezioni (forse!) nei grandi studi legali.
Come si potrebbe ovviare a questi problemi?
Al di là del discorso culturale, sul quale ancora si fa troppo poco, penso che sia anche una questione di come noi donne ci percepiamo (dobbiamo essere più coraggiose!) e di come ci prepariamo ad affrontare specifiche difficoltà nei diversi settori: all’estero le giovani professioniste, per esempio, si affidano a percorsi di coaching, frequentando corsi per imparare a gestire il personale, leggere i bilanci, fare un piano finanziario, interagire correttamente con gli altri nel mondo del lavoro: imparano soft skills, hard skills e metodi per rinnovare il proprio approccio e le proprie conoscenze per cavalcare l’onda del cambiamento velocissimo cui stiamo assistendo in un paese che pure mantiene forti aspetti di arretratezza. Un mix interessante, esplosivo, che dobbiamo governare donne e uomini insieme.