La frase del senatore americano Hiram Johnson «La prima vittima della guerra è la verità» è del 1917, ma testimonia ancora che mai come in guerra, quando diventa più difficile contare su fonti attendibili e possibilmente neutrali, sarebbe necessaria un’informazione responsabile.
Un conflitto non solo militare ma anche mediatico
L’invasione russa dell’Ucraina, in realtà quel confronto decisivo tra Russia e Occidente che non si è aperto ora, ma nel 2014, oggi rivela oltre il motivo apparente della guerra l’obiettivo principale della ridefinizione delle sfere di influenza a livello globale. Il popolo ucraino è l’evidente vittima di un rischioso confronto tra superpotenze.
La moderazione esercitata per oltre 75 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale sembra messa da parte con accenti sempre più bellicosi. Accordi per il controllo degli armamenti sia multilaterali sia tra Stati Uniti e Unione Sovietica sono stati negoziati durante la guerra fredda e dopo, fino al trattato New START, tuttora in vigore. Questi accordi hanno conosciuto un’intensificazione a partire dalla crisi di Cuba del 1963, che presenta alcune similitudini con quella attuale.
La pace resta invece per ora un’opzione di fatto inascoltata, i toni si inaspriscono, politica e diplomazia sembrano in difficoltà, incapaci di fermare la violenza della guerra, ma anche quella, non meno pericolosa, delle parole.
Intolleranza e censura crescono nei mezzi di comunicazione e l’informazione si caratterizza sempre più come propaganda. Se questo può essere normale in uno Stato autoritario, lo è meno in Paesi che si definiscono democratici ed è quanto ci deve interessare.
Sullo sfondo di un potere sempre più pervasivo della finanza e delle corporazioni avanzano il lacerante scontro ideologico che attraversa l’Occidente sui valori fondanti della democrazia e della libertà e la costruzione di un pensiero unico e di un nuovo ordine illiberale della società liberale. Questo vale non soltanto per l’azione politica, ma anche per il complesso dell’informazione. Le opinioni espresse nei media dell’establishment – come quella attuale che il conflitto in corso possa essere risolto più con il sostegno militare che con la diplomazia – vengono quindi presentate come indiscutibilmente giuste e condivisibili. Ma la forza della democrazia non è più tale se la democrazia è una parola vuota al servizio di interessi particolari, come dimostra anche il caso Assange.
Internet e i social, forse gli unici media che possono liberare l’informazione ufficiale dal conformismo, sono considerati un pericolo a meno che essi stessi non vengano addirittura trasformati in «utili» strumenti per campagne d’odio, come l’iniziativa del gruppo Meta (Facebook, Instagram, Messenger, Whatsapp) di consentire agli utenti di alcuni Paesi di invocare la violenza contro la Russia e il suo leader.
Nessuna espressione del pensiero viene risparmiata, ne dà testimonianza l’artista napoletano Jorit celebrando con il murale di Dostoevskij a Napoli l’ostracismo decretato da alcuni centri di cultura italiani nei confronti dell’arte e della letteratura russe. La National Gallery di Londra cambia il titolo di un’opera di Edgar Degas: le “Ballerine russe” diventano “Ballerine ucraine”. Ma sono solo alcuni esempi.
I luoghi comuni
La semplificazione nell’analisi di quanto sta avvenendo è temeraria, specialmente se corriamo il rischio di un’estensione del conflitto. Esaminiamo alcuni concetti ripetuti dall’inizio della guerra nei nostri media, che rappresentano una visione per lo meno parziale degli eventi, e quindi dobbiamo porci la domanda se non si riesca a vedere o non si voglia vedere la realtà:
– L’imprevedibilità dell’invasione. Largamente documentato da anni di studi strategici, il conflitto ha conosciuto una progressiva escalation, dalla guerra tra le milizie ucraine e quelle filorusse in Donbass fino all’odierna invasione, anche questa ampiamente prevista. Cecità involontaria o deliberato disegno per destabilizzare la Russia, come un piano strategico della Rand Corporation delineava sin dal 2019?
– La superiorità dell’Occidente e l’isolamento della Russia. La situazione strategica non è la stessa del secondo dopoguerra. Le democrazie hanno forse consolidato la propria supremazia planetaria dopo il crollo dell’URSS, dalla rinnovata tensione internazionale verso la Russia alla guerra in Iraq e alle primavere arabe? I modelli politici occidentali si sono dimostrati applicabili a Paesi radicalmente differenti per storia e cultura? L’alleanza strategica Stati Uniti – UE può ancora predominare in un’architettura multipolare? Difficile dire che la Russia sia isolata, quando ben oltre la metà della popolazione mondiale non condivide il sistema di potere delle democrazie occidentali.
– La presunta incapacità del leader e degli stati maggiori russi nella conduzione bellica e la «guerra lampo». Sappiamo che nelle operazioni militari la Russia ha impiegato finora una parte minima delle proprie forze nella probabile strategia di ottenere progressivamente sul campo l’autonomia del Donbass e la neutralità ucraina, previste dagli accordi di Minsk ma mai realizzate. Per questo ci troviamo nello stato attuale. La stessa definizione di «guerra lampo» appare un’irrealistica speculazione, dal momento che non una sola evidenza documentale prova che questo fosse l’obiettivo russo verso un Paese inoltre geograficamente consistente come l’Ucraina.
– L’idea che la pace si possa perseguire con la guerra. Esemplificata dal concetto espresso da Draghi «la pace [attraverso le sanzioni e le armi] o il condizionatore acceso», esprime la realtà opposta di un Paese virtualmente in conflitto. L’invio delle armi rivela la lungimiranza dell’asset strategico occidentale a difesa della libertà dell’Ucraina o la volontà di prolungare il conflitto sfiancando per interposta nazione l’avversario? Con il rischio di una disfatta economica di Europa e Stati Uniti e di un ampliamento della guerra? Se la maggiore preoccupazione della Russia è la propria sicurezza e la neutralità ucraina è un punto ineludibile della trattativa, è una mossa prudente l’allargamento della NATO a Finlandia e Svezia?
– Stati Uniti e Cina. La richiesta degli Stati Uniti alla Cina di non intervento in aiuto della Russia e di un allineamento sulla mediazione appare quanto meno singolare, mentre allo stesso tempo gli americani non solo forniscono armi a Kiev ma tendono a circondare nell’Indo-Pacifico la potenza cinese. L’ambasciatore cinese in Russia Zhang Hanhui, rivolgendosi a quello italiano Giorgio Starace, ha così buon gioco nel dire: «Dando armi all’Ucraina voi gettate benzina sul fuoco e poi chiedete aiuto a noi per spegnere questo fuoco. Non è giusto e non è neanche nei nostri interessi. L’Ucraina è molto lontana da noi». (Francesco Verderami, La Cina (da Mosca) avverte la Ue: «La Russia sa essere pericolosa», Corriere della Sera, 9 aprile) L’esito prevedibile di questo schema strategico è ahimé quello di avvicinare sempre più la Cina alla Russia.
Che fare?
Sembra distante anni luce il tempo nel quale un sindacato inerme come Solidarność, offrendo con la sua azione politica e quella dell’intera Polonia una lezione di libertà, determinava il crollo di un impero con il metodo del confronto sociale e non dello scontro, della non violenza contro la violenza delle armi. «Se avessimo memoria, sapremmo che la guerra, prima che arrivi al fronte, va fermata nei cuori» (Francesco, Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace).
Gran parte dei leader attuali non ha mai conosciuto un conflitto su larga scala e non sembra avere al momento la piena consapevolezza delle incognite che un evento del genere potrebbe innescare.
La soluzione di questa crisi può essere soltanto nel negoziato, che non nega la possibilità dell’autodifesa, ma ne costituisce un complemento strategico, non tattico. Purtroppo il fatto che affermare questo sia visto con malcelata diffidenza se non contrarietà la dice lunga sulle minacce che corre non solo la pace mondiale, ma un’informazione che non sia la semplice cassa di risonanza del potere: la menzogna non può essere vinta dalla menzogna, ma, parafrasando Johnson, con la verità.
Immagine di apertura di Sinitta Leunen, Unsplash