Cupo il cielo ragusano ai primi albori del 2 novembre 1861, giorno dedicato alla commemorazione dei defunti. Mariannina Coffa, diciannovenne e già madre di un bimbo, ha trascorso l’intera notte seduta accanto alla finestra contemplando il firmamento lontano. Eppur così prossimo… Il suo sguardo è ora perso nel vuoto: gli occhi spalancati vedono scorrere immagini della trascorsa esistenza nella sua Noto, prima dell’esilio post-matrimoniale imposto dai genitori: “Quand’io ripenso a la mia prima etate/ ridente ai sogni d’un perduto amor,/ piango soletta… e all’aure innamorate/ affido nel silenzio il mio dolor”.
Levatosi di buonora per le mattiniere visite domiciliari agli ammalati, il dott. Filippo Pennavaria, medico, scienziato e amico della sublime poetessa, ingiustamente confinata tra i minori dell’Ottocento, la scorge affacciata alla finestra e la saluta con un delicato inchino. L’amica pare osservarlo, ma il suo sguardo, in realtà, è chiuso alla visione del reale e viaggia in mondi paralleli alla ricerca dell’inconoscibile, del frammento lirico che intercetta bagliori di luce chiara. Non è la prima volta che ciò accade. Ricorda il medico gentile quanto egli stesso ha già appuntato sul suo diario nella prospettiva di una futura testimonianza sul modus essendi atque operandi di Mariannina nell’atto della produzione poetica: “Quand’ella è fortemente preoccupata da pensiero poetico, per qualche momento cade in catalessia, e perde le relazioni esterne”. In questa particolare forma di ispirazione, equivalente a uno stato di trance, lo scienziato intendeva cogliere l’eccezionalità di un completo estraniamento dalla realtà allorché era posseduta dalla passione travolgente dell’avventura artistica.
Non poteva sapere il Pennavaria, al pari del resto della dolce Mariannina, che questa era la caratteristica dei poeti veggenti, il cui capofila è William Blake (1757 – 1827). Il grande poeta inglese è, tra l’altro, precursore dei simbolisti che, sulla scia di Rimbaud (1854 – 1891), reclamavano la necessità di “una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi” per farsi veggenti e pervenire alla visione dell’ignoto, alla percezione dell’Assoluto, dell’Ideale, di Dio. Goffo e smarrito in una società volgare e senza colpi d’ala, il poeta, per sua natura, aspira a elevarsi oltre le stelle. In questo percorso ideale la nostra poetessa si ritrovava pienamente con tutta la potenza della sua anima.
Pensando ai suoi pazienti in ansiosa attesa, il buon medico si inchina nuovamente dinanzi al genio poetico in azione, pur sapendo di non poter essere ricambiato, e si allontana fino a scomparire a destra della chiesa di S. Giovanni.
Mariannina, immersa nei sogni d’un passato recente ormai perduto, intona il suo canto dolente: “Che val, che vale se furente il core/ vagheggia gli astri, le montagne, il ciel?/ Nei secreti dell’alma arde un dolore/ cui spegnere può sol della tomba il gelo./ Così men vivo in solitaria sponda/ chiedendo i sogni della prima età…/ e l’amor tuo mi segue e mi circonda,/ e meco all’urna in un sospir verrà”.
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Si ridesta infine la poetessa e, ricomponendosi dopo aver vissuto – un attimo, un’ora, una mattinata intera? – la sua condizione di rapimento estatico, implora l’amato Ascenso Mauceri, per sempre sottrattogli, il giorno di Pasqua del 1860, dalla decisione dei genitori di darla in sposa a Giorgio Morana, possidente ragusano, e dalla sua filiale obbedienza e sottomissione alla loro insindacabile volontà: “Vieni, vieni un istante! Io t’ho serbato/ tutta la possa d’un solingo amor…/ Vivrò piangendo e pugnerò col fato,/ sfiderò senza tema onta e dolor”. Si illude Mariannina di mutare il corso del destino: “Amarti!… o mio divino Angiol perduto,/ superba io vissi di quel santo amor!/ E se lungi men vivo e il labbro è muto,/ nei secreti dell’alma arde, e non muor!”.
Mira in alto la poetessa di Noto che ha scommesso la sua vita sull’amore, via privilegiata alla conoscenza, veicolo celeste per esplorare gli spazi interstellari e intraprendere il sentiero dell’infinito. Lontanissima da lei ogni suggestione adulterina: “Ho io speranza, dubbio, desiderio di vedere la mia sorte unita alla vostra? No, Ascenso: nulla di tutto ciò mi attraversa la mente anche per poco”, scrive al Nume, all’Angelo forse fin troppo idealizzato il 7 marzo 1870. Da lui desidera solo una parola di comprensione per non aver potuto onorare il giuramento d’amore, per aver dovuto scontare una colpa non sua, per sfuggire alla disperazione, piangendo “un istante ai suoi piedi… e udirgli ripetere una parola di perdono”.
Rincorrendo sogni di gloria, nelle sue qualità di segretario particolare di Matteo Raeli, ministro del Regno d’Italia e redattore della legge sulle Guarentigie, e di drammaturgo mai pienamente realizzato, Ascenso Mauceri, che aveva intrapreso una relazione con una donna dalla quale ebbe ben sette figli e che mai riuscì a capire l’altezza poetica e umana di Mariannina, consuma la sua vendetta per essere stato da lei abbandonato, rimanendo spiritualmente a siderale distanza dall’ex-fidanzata. Peraltro, pur essendo un apprezzato intellettuale, egli si dimostra inidoneo a seguirla nel sogno d’assoluto che ella persegue e confida all’amica Luisa: “Farfalla innamorata/ ch’ergi le penne oltre le vie del sole/ per tuo foco medesmo inebriata,/ Sibilla arcana per le tue parole,/ se il mistico pensiero/ che di cielo ti veste opra è del Nume,/ anch’io piango… ti adoro… e grido anch’io:/ Ecco un baleno dell’eterno vero,/ ecco una fiamma dell’etereo lume,/ ecco la creta che sospira a un Dio!”.
Vive – penosamente – sulla terra Mariannina, ma, tra lutti e delusioni, guarda al cielo abitato dall’Amore, meditando sulla lezione di vita che il can. Corrado Sbano, suo maestro nei vasti campi del sapere umano e della fede cristiana, non si stancò mai di proporle.
La farfalla non ha però ancora ben consolidate le ali, sì che nella sua possente ispirazione l’angelo dell’armonia dell’universo sovente prende le forme dell’angelo terreno, di Ascenso Mauceri. Il che non può che riservarle altro che disinganni: “Perché, diletto mio, la tua sembianza/ soavemente mi sorride appresso?/ Perché, se il mio dolor non ha speranza,/ vivo pur sempre e mi consumo in esso?/ …/ Quante notti sognando il tuo sorriso,/ i tuoi baci, i tuoi sguardi, il tuo sembiante,/ le dolcezze gustai del paradiso:/ gustai gli amplessi d’un celeste amante!”.
Il nume terreno rimane freddo, incapace di seguire il volo tra le stelle Mariannina, che ha bisogno di un cuore “che intendere/ possa il mio spirto anelo,/ ch’abbia il candor degli angeli,/ ch’ami qual s’ama in cielo”.
I due elementi chiave della realizzazione poetica e umana – cielo e amore – sono profondamente impressi nell’anima della capinera di Noto. Ma come esplorare le loro ampie e misteriose dimensioni e andare oltre l’intuizione della loro possibile coincidenza?
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La vita scorre veloce intanto e, poco più che trentenne, la poetessa, nata nella capitale del barocco il 30 settembre 1841, avverte i prodromi di quella che sarà la malattia mortale che la porterà alla tomba, nella sua Noto, il 6 gennaio 1878, a 36 anni, 3 mesi e 6 giorni.
Il 24 febbraio 1875 cade in una sorta di catalessi da cui si riprenderà dopo mezzora di perdita totale delle relazioni esterne. Quando rientra nel mondo degli umani, la musa veggente scopre d’aver scritto, senza saper come, 68 versi che legge e medita con trepidante emozione. C’è un titolo, “Psiche”, che simboleggia la poesia, la verità, la profondità dell’anima umana, ma anche il senso profondo del creato e la perenne giovinezza dello spirito lanciato alla conquista dell’idea pura.
Ecco, Mariannina realizza come ormai, constatati i limiti invalicabili della condizione terrena, possa tendere alla massima espressione e captazione terrena dell’Assoluto: “Datemi l’arpa: un’armonia novella/ trema sul labbro mio…/ Vivo! Dal mio dolor sorgo più bella:/ canto l’amore e Dio!/ …/ Psiche è il mio nome: ho l’ale e son fanciulla,/ madre ad un tempo e vergine son io,/ patria e gioie non ho, non ebbi culla,/ Credo all’amore e a Dio!”. Nel verso finale di ben dieci quartine su diciassette complessive della lirica, appaiono uniti “amore” e “Dio”. Il volo per volgere definitivamente le spalle al ristretto spazio vitale è iniziato, soprattutto quando descrive le parabole celesti di Psiche, suo alter ego: “Nei più splendidi cieli e più secreti/ sorvolo col desio:/ nata ad amar, sul labbro dei Profeti/ cantai l’amore e Dio/…/ Nello sprezzo dei tristi io m’ergo un’ara/ e amor contemplo e Dio”.
Scoperto l’essenziale e il sentiero che guida all’Assoluto, la poetessa può anche mettere da parte la sua insonne ricerca esistenziale per mirare a Dio Amore: “O Umanità! La scola del passato/ copri d’eterno oblio,…/ quel Bene che finora hai vagheggiato/ è Psiche, è Amor, è Dio!”.
Con la certezza che Dio e Amore sono sinonimi, Mariannina, ammalata di tumore all’utero, affronta il suo durissimo calvario, allontanata dalla famiglia ragusana, dagli stessi genitori, da Ascenso, ignorata da molti amici con la felice eccezione di alcuni, tra cui il can. Sbano che mai la tradì, meno che mai post mortem. Nell’ultima sconvolgente lirica “A Filippo Santocanale” (24 novembre 1877), che sempre più appare come un messaggio che ci arriva dall’al di là, si chiede: “Che mi giovò dei dolci carmi in seno/ versare il germe d’una idea novella,/ e sul detto immortal del Nazareno/ schiudere un’era più feconda e bella?”.
Parafrasando il Vangelo, ennesima inconfutabile prova della sua fede cristiana, già testimoniata nelle sue stupende ottave a “Maria Vergine Addolorata” e soprattutto nell’identificazione tra Dio e Amore, aggiunge: “Fu ben triste la prova! E intendo ormai/ che al Figliol dell’Uomo oggi non resta/ un nudo sasso ove poggiar la testa,/ un core a cui ridir gli ultimi lai!/ Ed io… chi sa se al ritornar del maggio,/ quando natura i bei tesori effonde,/ quando d’amore il lusinghiero raggio/ parla ai fiori, agli augelli, ai campi e all’onde,/ chi sa, se stanca d’una inutil guerra,/ non poserò nella natia vallata!/ Questa, amico gentil, m’era serbata/ unica gloria, unica gioia, in terra!”.
Mariannina non arrivò a godere le bellezze e lo splendore del maggio del 1878. Era già nella dimensione che sta oltre le galassie azzurre, oltre il firmamento, nelle sconfinate praterie senza tramonto ove trionfa l’eterna primavera.