Si temeva che avrebbe dichiarato la guerra totale, e non lo ha fatto. Che avrebbe disposto una mobilitazione generale, e non lo ha fatto. Putin ha ripetuto la litania nota della denazificazione, negando qualsiasi apertura negoziale all’Ucraina (non le ha neanche riconosciuto il carattere di Stato) e usando toni più aggressivi nei confronti degli USA, accusati di aver messo in cantiere con gli alleati della NATO una fantasiosa aggressione che la Russia è riuscita a prevenire, difendendosi.
Retorica a parte, è sembrato un discorso di attesa, anche se non è chiaro di cosa. Sul piano militare l’esercito russo si muove lentamente e non ha neanche utilizzato appieno la sua aviazione; Putin potrebbe stare prendendo atto che l’ipotesi del blitz vittorioso è tramontata e stare studiando come e quando passare a una trattativa. Come invece potrebbe stare aspettando di dispiegare meglio le forze per sferrare l’attacco decisivo. Nel frattempo, fa dire a qualcuno dei suoi generali che l’obiettivo è quello di arrivare, per ora, sino alla Transnistria e domani, chissà, agli altri territori da “liberare”.
Il vero dilemma è di capire cosa ci sia nella testa di un leader che non è né matto né invasato, ma persegue un programma cinicamente definito ed ha usato un pretesto che non c’era – quello dell’adesione dell’Ucraina alla NATO – non per riaprire da posizioni di maggior forza il dossier del Donbass, su cui nessuno era innocente, ma per scatenare un’invasione che è un understatement definire un errore marchiano, e che gli è comunque costato caro. Capirlo resta tuttavia la condizione fondamentale per immaginare i termini di un negoziato per una intesa che ciascuno possa presentare alla propria opinione pubblica come win-win.
Uno dei risultati più inattesi dell’aggressione di Putin – per la delusione degli euroscettici e l’entusiasmo degli euroentusiasti – è stato il rilancio dell’integrazione europea e di una sua vera dimensione politica e di sicurezza. Draghi ha fatto un discorso coraggiosamente europeista e ha parlato di revisione dei trattati, superando finalmente un tabù caro a molta dell’ortodossia comunitaria brussellese (e romana).
Letta, Schallenberg, Macron, von den Leyen, hanno ripreso il tema da diversi angoli visuali e tutti ora dicono di volere una difesa europea, una politica estera comune ecc. per chi è sufficientemente vecchio per ricordare, vale l’adagio dell’araba fenice della storica trasmissione di Morbelli: «dove sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa»… Sono nato e resterò federalista e spinelliano, ma forse è giunto il momento di dirsi che l’Europa del Manifesto non si è realizzata e – invece di continuare nelle liturgie salvifiche e un po’ ipocrite di Ventotene – chiedersi come e con chi avviare un processo che, da un lato, consenta di sviluppare una dimensione economica, monetaria, di sicurezza, di politica estera e di difesa sostanzialmente federale, in cui non valga l’unanimità, e, dall’altro, assicurare una adesione quanto più ampia possibile ai principi fondanti dell’idea di Europa: stato di diritto, libertà fondamentali e diritti della persona, mercato aperto e così via.
Due percorsi autonomi e reciprocamente permeabili. Letta e Macron ne hanno entrambi parlato, con accenti diversi: è evidente che è necessario poter richiamare gli Orban al rispetto dei nostri principi fondanti, così come è illusorio pensare che un paese dalle condizioni economiche e strutturali (pre-guerra, si intende) dell’Ucraina possa pensare a un ingresso in tempi brevi nell’UE. Così come è evidente che se l’Europa non saprà darsi una prospettiva integrata e una voce sola in materia di politica estera e di difesa, l’aspettativa di svolgere un ruolo di peso nel contesto internazionale che si va delineando sarà destinata a restare nel limbo delle illusioni. Ci sono modi diversi per arrivarci e c’è ancora chi esita davanti al tabù dell’inamovibilità dei trattati: non ci sono ricette magiche e quel che conta è cominciare a parlarne seriamente.
Perché solo in questo modo l’Europa potrà dire la sua quando il negoziato sull’Ucraina entrerà nel vivo, facendo valere i propri diritti e moderando – questo sì – le pulsioni di chi vede nello scontro l’occasione per ridurre all’impotenza un paese, la Russia, con il quale dovremo continuare e convivere e collaborare. Per evidenti ragioni geopolitiche e altrettanto evidenti considerazioni economiche.
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