«L’Ottocento è stato un secolo di imperi, il Novecento è stato un secolo di stati nazionali, il Duemila sarà il secolo delle città». Fino al 2019 la profezia dell’ex sindaco di Denver Wellington E. Webb sembrava una semplice constatazione. Negli ultimi vent’anni New York, Londra, Tokyo, Milano e altre grandi città del mondo hanno approfittato dei vantaggi della globalizzazione offrendo lavoro, opportunità e servizi in grado di attrarre milioni di persone. Queste metropoli così influenti e connesse fra loro avevano fatto pensare alla rinascita delle città Stato, come teorizzato in un libro da Parag Khanna, ex consigliere di Barack Obama.
Poi però è arrivata la pandemia. Uffici abbandonati, metro vuote, bar e ristoranti chiusi. Il lockdown prima e il diffuso smart working ora hanno determinato il declino di tutta la filiera commerciale basata sui pendolari e i lavoratori delle metropoli. E chi può è tornato nella sua provincia a lavorare davanti a un Pc. Il primo a lanciare l’allarme è stato il sindaco di Milano, Beppe Sala, a luglio del 2020: «Milano è ferma perché qualcun altro non lavora in presenza. Capisco che c’è una necessità di smart working, però non consideriamola normalità, perché se dovessimo considerarla normalità dovremmo ripensare interamente la città».
Sette mesi dopo la pandemia il problema permane, soprattutto negli Stati Uniti. Come segnala un lungo approfondimento del The Atlantic le grandi metropoli della costa est e ovest hanno subito di più l’esodo di massa verso i piccoli centri urbani. La California ha “perso” più abitanti di tutti gli altri Stati Usa, e lo stesso è successo nei cinque Stati più grandi del nord-est: New York, Pennsylvania, New Jersey, Massachusetts e Maryland (dati U-Haul). Anche il prezzo degli affitti è diminuito più rapidamente a San Francisco, Seattle, Los Angeles, Boston e New York. Secondo Zillow, la società americana di mercato immobiliare online, i valori delle case di tre grandi metropoli: New York, San Francisco e Washington stanno crescendo al di sotto della media nazionale. Un problema grave per le casse comunali delle metropoli: la gran parte dei servizi municipali è finanziata dalle costose tasse sulla proprietà, sulle vendite di immobili e sul trasporto pubblico (multe comprese).
È cambiato davvero il paradigma o una volta finita la pandemia tornerà tutto alla normalità? In fondo l’uomo ha sempre vissuto nel luogo dove lavorava e il tragitto casa ufficio è la base dell’economia di qualsiasi città, non solo delle metropoli. E poi Internet non è nato nel 2020: esiste da decenni e questo non ha mai spinto milioni di persone a lavorare per forza da casa. Per non parlare di tutti quei lavori essenziali che per forza si devono (e dovranno) svolgere in presenza.
Atlantic però evidenzia una conseguenza della pandemia da non sottovalutare: fino al 2020 il lavoro a distanza non si è diffuso per ragioni sociali non tecnologiche. Se un dipendente avesse chiesto al proprio capo di fare una riunione su zoom o di poter sbrigare per sempre le pratiche d’ufficio in casa, sarebbe risultato ridicolo, perché lo smart working era visto come un surrogato del vero lavoro. Un po’ come se nella seconda metà dell’Ottocento avessimo chiesto al nostro capo di sentirci al telefono per parlare del bilancio aziendale. Il telefono è stato brevettato nel 1860 ma solo decenni dopo è diventata una tecnologia diffusa in tutto il mondo.
Questo concetto si basa sulla legge teorizzata da Robert Metcalfe, l’inventore delle reti Ethernet: «il valore di una rete di comunicazioni aumenta esponenzialmente con il numero dei suoi utenti». E ora che la pandemia ha costretto la maggior parte dei lavoratori a usare zoom e Skype non è detto che si torni facilmente indietro.
Forse quando sarà necessario si tornerà a fare i viaggi di lavoro, così come i pranzi con i partner commerciali o le riunioni in ufficio, ma la lezione della pandemia è che lo smart working non è più un surrogato, ma un’alternativa economica ed efficace.
Ci si può chiedere allora se abbia senso rimanere in una metropoli se si può lavorare tranquillamente da casa, magari in una tranquilla provincia dove il costo della vita è inferiore. Potrebbe nascere un nuovo tipo di lavoratore: il super pendolare. È vero che il prezzo delle case sta scendendo rapidamente nelle aree centrali delle grandi metropoli, ma allo stesso tempo sta aumentando nelle periferie e nelle città “dormitorio” vicine.
Tradotto: sempre più persone sceglieranno di vivere in una casa più grande fuori città, in un ambiente meno costoso e più sicuro sapendo che però qualche volta al mese torneranno nella vicina metropoli per riunioni fondamentali in ufficio o per consolidare rapporti di lavoro. Ovvero un tragitto da pendolare allungato, ma diluito nel tempo.
Questa nuova tendenza potrà salvare le metropoli dallo spopolamento ma avrà un impatto comunque forte sulla loro economia. Meno residenti, meno tasse, minori servizi. Ed è alto il rischio di una spirale negativa che porti a lasciare le grandi città chi non lo ha fatto finora.
Non tutto è perduto. Il calo del prezzo degli affitti nelle metropoli dovuto all’esodo costante di persone ha un aspetto positivo da non sottovalutare: può attirare nuove persone (giovani, immigrati, chi ha sempre vissuto in provincia) a trasferirsi nella grande città che prima non avrebbero mai potuto permettersi. Se la spirale sarà negativa o positiva ce lo dirà il tempo. In ogni caso la transizione sarà difficile.
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