Scalfari era già Scalfari. Tuttavia i dubbi sul successo di Repubblica erano forti quando andò in edicola. Carlo Rognoni mi disse: «Metti anche Repubblica in collezione assieme agli altri giornali. Vediamo cosa succede…». Era il 14 gennaio 1976 e la Repubblica fu pubblicata per la prima volta.
Allora il vostro cronista aveva appena 21 anni e collaborava al servizio economico della redazione romana di Panorama guidata dal gentiluomo Carlo Rognoni, successivamente direttore del settimanale sulla cresta dell’onda con ben 500.000 copie vendute.
In poche settimane Scalfari vince la sua scommessa: il nuovo quotidiano che aveva fondato prende quota. Un episodio personale mi fa aprire gli occhi sullo straordinario successo editoriale: Repubblica pubblica un mio pezzo in apertura di pagina economica (compenso 30.000 lire) illustrato da una vignetta del grafico Franco Bevilacqua, lo stesso articolo bocciato da Panorama. Scoppia un pandemonio perché il concorrente Repubblica aveva soffiato una esclusiva, come si definisce in gergo giornalistico un pezzo originale di valore. Constato due fatti: scrivo abbastanza bene, firmare un pezzo su Repubblica vale più di una laurea in giornalismo.
Il boom arriva con tre innovazioni editoriali: 1) il formato tabloid (comodo da leggere anche sulla metropolitana); 2) i titoli brevi, strillati e gli articoli spettacolarizzati; 3) la forte cifra politica scalfariana, quella del giornale partito. Proclama ai redattori: serve “un bersaglio” per fare un giornale.
Il cosiddetto “giornale partito” è la vera novità. Scalfari è per metà giornalista e per metà politico. Fa un quotidiano che dà notizie, svolge analisi ma realizza anche un interventismo politico per determinare o addirittura guidare le scelte di un partito. Filippo Ceccarelli, in un articolo pubblicato giovedì 14 luglio in occasione della morte di Scalfari, ricorda il giudizio di Giorgio Bocca dato negli anni ‘Ottanta sull’allora direttore di Repubblica: fuoriclasse indipendente, «giornalista politico d’intervento, capo partito senza partito». Del resto lo stesso Scalfari non ha smentito di aver fondato un giornale partito: «Repubblica è un giornale politico, è meno di un partito ed è più di un partito».
All’inizio Repubblica è una testata di area socialista. Ma quasi immediatamente Scalfari fa rotta verso il Pci di Enrico Berlinguer. Nello scontro tra Berlinguer e Craxi per l’egemonia a sinistra, sceglie il primo. Quasi certamente è attirato dal progetto d’impadronirsi del grande bacino di lettori comunisti. Ci riesce benissimo. Assume molti giornalisti di Paese Sera e de l’Unità. Sottrae molti lettori ai due quotidiani (la prima testata chiude e la seconda è ridotta ai minimi termini). Il bersaglio è il Psi di Bettino Craxi. Segue un altro cambio di rotta verso la Dc di Ciriaco De Mita. L’obiettivo è di trasformare il Pci in una forza liberaldemocratica.
Non si preoccupa troppo della sua coerenza politica. Da giovane è fascista, nel referendum istituzionale del 1946 vota per la monarchia, negli anni ‘Cinquanta è un liberale di sinistra con Il Mondo di Mario Pannunzio. Poi vira verso il Psi: all’Espresso è alfiere delle inchieste sulle trame nere, per le battaglie sui diritti civili, appoggia i governi di centro-sinistra. Nel 1968 è eletto deputato nelle liste socialiste a Milano.
Le palle vanno in buca con Repubblica. La testata raggiunge le vette di 600.000—700.000 copie vendute al giorno contendendo al Corriere della Sera la medaglia di primo giornale italiano. Il Pds, i Ds, il Pd, i partiti eredi del Pci, assumono sempre di più una identità liberaldemocratica allentando le radici di sinistra.
Scalfari continua la sua battaglia giornalistica e politica nella Seconda Repubblica, attaccando Silvio Berlusconi e sostenendo il Pds-Ds-Pd. Nella Terza Repubblica non è più direttore ma impugna sempre la penna facendo a fette il populismo di destra della Lega di Salvini e quello rosso-nero del M5S di Grillo.
Però i suoi sogni vanno in frantumi. Le vendite di Repubblica precipitano già quando l’editore è la famiglia De Benedetti (alla quale ha venduto il giornale) e la crisi si aggrava dal 2020 quando la famiglia Agnelli-Elkann acquisisce la testata assieme a tutto il gruppo Gedi.
Prende atto del degrado dell’Italia dopo il crollo della Prima Repubblica. A Che tempo che fa, Rai 3, dice sconsolato nel 2012: «Ogni Paese ha la classe dirigente che si merita». Negli ultimi anni di vita intervista e apprezza Papa Francesco. È morto il 14 luglio a 98 anni concludendo una vita lunga, avvincente e spericolata.