Tre settimane in un’altra città.
XXXVI edizione del Festival del Cinema Ritrovato a Bologna. Tre settimane in un’altra città, nella fattispecie la propria. Macchina sotto casa, da oggi solo autobus. “Sembra, facile” diceva l’omino coi baffi di un famoso Carosello. Sembra.
Perché devi sapere (Aznavour) che da giorni, per lavori, il tratto Porta S. Stefano – Piazza Malpighi è chiuso agli autobus diretti in centro. Poco male, dal lunedì al venerdì. Malissimo nel fine settimana, quando a questo intoppo si somma quello costituito dal partito preso della “T” pedonale: la chiusura festiva e prefestiva del tratto interno della via Emilia fra Piazza Malpighi e le Due Torri, e di via Indipendenza dal centro alla Stazione. Il che significa percorsi degli autobus assurdi, incroci con linee mai prese in vita tua o centinaia di metri a piedi nel caldo torrido. “Devi sapere, ma…io non lo so!” e il primo fine settimana sarà un trauma. Fermatomi boccheggiante per un tè freddo arriverò in ritardo a una delle proposte più prelibate (e non replicate): il “Ludwig” restaurato di Visconti (quattro ore e mezza, voi capite, è roba da menti riposate, per non parlar dei corpi), che attenderò fiducioso a Roma. Questa, intanto, è Romy Schneider.
Logistica.
Cuore logistico del festival, gli spazi del vecchio macello di via Azzo Gardino si aprono ai cinephiles di tutta Europa, accolti da un caldo micidiale che ci accompagnerà fino alla fine. Come a Roma il mattatoio di Testaccio, a due passi dal cimitero che accoglie le ceneri di Gramsci, anche a Bologna i luoghi che hanno visto scorrere a fiumi “Il sangue delle bestie” (tremendo corto sui macelli di Georges Franju – 1949 – riproposto undici anni fa da questo stesso Festival), sostituiti da altri più periferici, sono oggi luoghi destinati alla cultura. E Piazzetta Pasolini si chiama, non a caso, quella antistante le tre sale della Cineteca e la libreria Renzo Renzi, sede dell’accoglienza e della mostra mercato dell’editoria cinematografica. Cuore pulsante del piccolo quartiere concentrazionario riscattato, il piccolo spiazzo ospita ai margini il banco, gli ombrelloni e i tavolini dello spazio ristoro (mai così inane il suo commovente impegno). Utilizzata di giorno per presentazioni e incontri, Piazzetta Pasolini si apre la sera ad una delle manifestazioni più tipiche del Cinema Ritrovato: le proiezioni evento, con proiettore a carbone, dei film degli anni 20. Il più atteso dei quali è “Nanouk, l’esquimese” (1922) di Robert J. Flaherty, restauro eccellente di questa edizione. Completano la logistica del Festival due cinema storici di via Lame, l’Arlecchino – avamposto bolognese dei “Ferrero cinemas”, oggi nelle peste per i guai del patron – e il Jolly; la sala Cervi della Cineteca, riservata alle proiezioni per i bambini (la “Cinnoteca”, tanto per chiarire dove siamo) e l’Europa di via Pietralata (sempre lì intorno). Infine, last-but-first, Sua Maestà Piazza Maggiore, la Piazza Grande di Lucio Dalla. “Il cinema più bello del mondo”, titola un libro che raccoglie scatti della piazza in questi trentacinque anni.
Bob non balla da solo.
Il programma prevede sei serate di apertura in Piazza Maggiore, nove giorni di Festival vero e proprio (quasi 500 film) e una coda di sette repliche in Piazza per allungare e sfumare i saluti, come nel pranzo di nozze di Gradisca. Apre “Il grande dittatore” di Chaplin, chiudono “The Last Waltz” di Scorsese – l’ultimo concerto di “The Band” – e il “ciao ciao” (con le mani e tutto) dei due pezzi di Bob Dylan. E sarà certamente una combinazione questa chiusura con il menestrello di Duluth, qui in elegante borsalino rosa a larga tesa, capigliatura e barba angeliche. Ma nel centenario – puntualmente ricordato presentando la rassegna “100 anni fa” – della pubblicazione dell’”Ulisse” di Joyce (Sylvia Beach, Parigi, “Shakespeare & Co.”) e della “Terra desolata” di Eliot (New York, Horace Liveright), parole e musica di “Forever Young” e di “Baby, let me follow you down” sono una bandierina. Segnalano che in fondo è a questo signore che dobbiamo la waste land di oggi, il regalo dei suoi ottant’anni. E peggio per chi non se n’è accorto. Si chiama “Murder most foul” (2020), titolo di “Assassinio sul palcoscenico” (1964), e il “crimine più esecrabile” è l’assassinio di Kennedy. Diciassette minuti di una ballata lenta e roca, fitta di ogni tipo di riferimento e citazione; canto denso del vecchio “hobo”, in cui perdersi e ritrovare il secolo in cui abbiamo vissuto, grazie al minuzioso, eppure integrabile, apparato di note di “Canzoni contro la guerra”. Centinaia di rifrazioni di un diamante storico poetico, infinite quanto la memoria personale di ognuno, sul modello del grande poemetto di cent’anni fa (da secolo a secolo, da Nobel a Nobel). Canto finale di un’epoca che ci ha visti illusori protagonisti, durata più di quanto non dicano gli anni attraversati a piedi (o forse meno) e che ci trova oggi ancora qui, col nostro pugno di riferimenti in mano. “These fragments I have shored against my ruins”, potrebbe dirlo anche Bob. Siamo ancora qui. E, l’anno prossimo, a Bologna.
Fogli di diario.
Il muto.
L’Institut Lumière di Lione e la Pathé-Gaumont sono la mano pubblica (molto potente, in Francia) e quella privata della conservazione e del restauro del cinema francese delle origini. Ma sono diverse le cineteche al mondo che ne conservano esemplari e frammenti, soprattutto di Méliès, e li presentano qui. È un paesaggio perduto di cui ogni anno riappare qualche nuova casa, strada, giardino, sferisterio, con ritmo ormai accelerato per gli sviluppi del digitale e il fervore di iniziative. Quest’anno il Festival punta il compasso sul 1902, anno del “Viaggio sulla Luna” di Méliès, e su un singolare autore prima teatrale poi cinematografico, Victorin-Hippolyte Jasset, creatore del genere poliziesco, con i suoi Nick Carter e Zigomar, l’eroe criminale, e di quello spionistico con l’anti Mata Hari, la bellissima Protea, cacciatrice di spie. Quasi duecento film in sette anni, dal 1906 alla morte prematura, a 51 anni, nel 1913.
Ma è un gioiellino di qualche anno dopo ad attirare l’attenzione del curioso non specialista: “Crazy to marry” (“Fatty allegro marito”, 1921) di James Cruze. Ripudiato dagli americani, salvato dai sovietici che ne avevano conservato una copia nei loro archivi, esfiltrato a Bruxelles durante la guerra fredda, verso la “Cinématèque Royale” che ne presenta qui il restauro, “Crazy to marry” è l’ultimo film del povero Fatty Arbuckle, il simpatico comico che l’anno dopo, beniamino del pubblico e gallina dalle uova d’oro dei produttori, avrebbe avuto la vita distrutta da un oscuro caso Montesi americano. Uscirne non solo assolto, ma con le accorate, inusuali scuse del tribunale, non gli avrebbe consentito di recuperare nemmeno un frammento della passata gloria. Non c’è fumo senza fuoco, recita infatti la “saggezza” (puah) popolare. Esemplari le vicissitudini di questa deliziosa commedia, bruciata dagli americani, conservata per tre quinti (mancano due rulli, sostituiti da un corredo scritto di didascalie) dai sovietici e restaurata dai belgi, che ne hanno tradotto le didascalie con l’aiuto di un’archivista russa.
Prime commedie nell’ultima Europa.
Fra il 1913 e il 1918, mentre in Europa si consumava la sconfitta dell’Impero austro-ungarico, in America un gruppo di produttori esclusi dall’organizzazione di categoria (la “Motion Picture Parents & Co“) dichiarava guerra al fronte del cinema, organizzando il proprio trasferimento in massa all’altro capo del paese, ai piedi di una collina che avrebbe preso nome dalla prevalente cultura arborea, l’agrifoglio (“holly”, il familiare pungitopo). Nel 1913 sorgeva l’Universal, nel ’15 la Fox, nel 17 la Paramount e la First National (poi Warner Bros), nel 19 la United Artists, nel 20 la Metro. Vittoriosa, incruenta guerra di secessione, destinata a produrre lo scioglimento legale del potente sindacato East Coast e la nascita di quell’impero di celluloide che nel decennio successivo avrebbe assorbito la parte migliore delle cinematografie centro-europee. Il vasto movimento di immigrazione verso gli Stati Uniti sviluppatosi fra la metà degli anni venti e l’Anschluss (1938), infatti, avrebbe portato “gli ex sudditi degli imperi centrali a costituire ben presto la componente più numerosa di quel nuovo impero, fondato da pionieri ed emigranti di ogni provenienza: russi e scandinavi, polacchi e irlandesi” (Alberto Farassino) Il passaggio fra l’avvento del sonoro e quello di Hitler, rivive al Cinema Ritrovato con “L’ultima risata”, rassegna di commedie musicali uscite fra il 1930 e il 1932, prima del grande trasloco.
Tra cabaret berlinese (“Il gabinetto del dottor Lalifari”), operetta (“La segretaria privata”) e commedia sentimentale, scorrono titoli a noi ignoti, come “La canzone è finita” o “Sua Maestà l’amore”. Fra questi la divertente commedia di un autore che nel nome, Ludwig Berger, unisce il Re pazzo di Visconti e il suo interprete: “Io di giorno, tu di notte”, storia di una manicure e di un cameriere che dividono, senza conoscersi, la stessa stanza d’affitto e lo stesso letto. Lei di notte (lavora di giorno), lui di giorno (l’inverso). Ognuno/a dei due nasconde per dispetto le cose che l’ignota/o coabitante casinista lascia in giro. Si conosceranno per caso, naturalmente innamorandosi. Licenziati l’uno per colpa dell’altro, si ritroveranno in camera, per fatal combinazion, al primo conflitto di orari. Giusto in tempo per venire entrambi “licenziati” dall’affittacamere, che non vuole relazioni sentimentali fra i pigionanti. Ci penserà, come sempre, Re lazzarone: Sua Maestà l’amore.
Il colore
Se il sonoro fu una ventata che costrinse tutti, ma proprio tutti, ad adeguarvisi nel giro di un paio d’anni, fra il ‘28 e il ’29 (solo Chaplin resisterà fino al ’40, sonorizzando, ma senza parlare), non fu così per il colore: la sua affermazione definitiva – a meno di singole operazioni artistiche tipo “Manhattan” – avrebbe richiesto quasi tre decenni, dal 1939 (“Via col vento”, “Il mago di Oz”) agli ultimi anni ’60. Prevaleva nei grandi autori, la ricerca di un colore che non fosse semplice cromatismo, ma sostanza estetica. Il Pontormo di Pasolini (ma anche, sempre per P.P.P., i colori di Paperino della “Terra vista dalla luna”), Il rosso placenta di “Sussurri e grida”, il silenzio a colori di Antonioni: la spiaggia rosa di Budelli, il bosco bianco di Ravenna, il deserto del Marocco (“Se c’è ancora dell’autobiografia, è nel colore che essa deve essere trovata”).
La ricotta.
“Colori? Chiamali colori… Non so…Se prendete dei papaveri, lasciati nella luce del sole di un pomeriggio melanconico, quando tutto tace (“perché mai nessuna donna cantò – alle tre del pomeriggio”) – in un ardore di cimitero – se li prendete e li pestate, ecco, ne viene fuori un succo che si secca subito; ebbene, annacquatelo un po’ su una tela bianca di bucato, e dite a un bambino di passare un dito umido su quel liquido: al centro della ditata verrà fuori un rosso pallido pallido, quasi rosa, ma splendido per il candore di bucato che cià sotto; e agli orli delle ditate si raccoglierà un filo di rosso violento e prezioso, appena sbiadito; si asciugherà subito, diventerà opaco, come sopra una mano di calce…Ma proprio in quello sbiadirsi cartaceo conserverà, morto, il suo vivo rossore. Questo per il rosso”. Poi ci sono l’azzurro, il bruno, eccetera. (P.P.P., “Alì dagli occhi azzurri”)
Fra i molti centenari della nascita che si celebrano quest’anno (Gassman, Tognazzi, Rosi, Lizzani, Salce, Damiani, ecc.) quello di Pasolini ha un’importanza particolare per Bologna. Negli spazi del sottopassaggio di via Rizzoli è allestita una bella mostra: “Folgorazioni figurative”, sulla radice pittorica della sua ispirazione cinematografica: sale di contrappunti e riferimenti fra cinema e pittura, da “Accattone” a “Salò”. Il Festival propone in apertura il recente restauro della “Ricotta” (1963), il cortometraggio che gli valse più denunce ed esecrazioni – oltre a una condanna per vilipendio della religione – per le scene dei figuranti di un film sulla Passione che arrivano sul set con i mangiadischi e nelle pause ballano il twist. Terzo degli episodi di un film a più mani (“Ro.Go.Pa.G. – Laviamoci il cervello”: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti gli autori dei quattro segmenti), “La ricotta” è il primo esperimento di Pasolini sul colore. Non perché il film fosse a colori (era in bianco e nero), ma perché contiene due, davvero straordinari, tableaux a colori: la ricostruzione di due deposizioni, Pontormo e Rosso Fiorentino, con attori contemporanei (la Madonna è Laura Betti, per dire), tentando l’ardire dei colori originali. Ma bisogna leggerli, oltre che vederli, questi colori, nel trattamento del film pubblicato due anni dopo in “Alì dagli occhi azzurri”, per misurare la portata dell’azzardo. Una meraviglia d’incontro fra cinema, poesia e pittura, ancora straordinario. Un’epifania.
Come le foglie al vento”.
In fuga dal Terzo Reich c’è anche Hans Detlef Sierck, regista teatrale e cinematografico di buona fama, fino al ‘36 in equilibrio compromissorio fra nazionalsocialismo e indipendenza intellettuale. Sposato a un’attrice ebrea, nel ’37 passa in Svizzera, poi in America, dove Hollywood avrà modo di esaltarne la vocazione al melodramma e l’incredibile stakanovismo. Trenta film in quindici anni, dal ’44 al ’59, firmati Douglas Sirk. Amatissimo dalle nouvelles vagues europee, segnatamente da quella del suo paese; mito di Fassbinder, che gli sarà allievo al ritorno in Germania e ne assumerà la prolificità iperbolica, giungendo perfino a superarlo, quattro film su tutti rimangono nella memoria del cinema: “Secondo amore” (rifatto in maniera personalissima da Fassbinder in “La paura mangia l’anima”), “La magnifica ossessione”, “Come le foglie al vento” e “Lo specchio della vita”. “Written in the wind” è fra i restauri più attesi.
Se c’è nel cinema degli anni ’50, in cui il colore è ancora un’avventura, un artista capace di darne uno al proprio tempo, questo è Sirk. Un marchio cromatico riconoscibile e imitato ancora oggi, dal Todd Haynes di “Lontano dal paradiso” o dal Sam Mendes di “Revolutionary Road”. Lo vedi e dici, è quello: America anni ’50. “Come le foglie al vento” e “Cantando sotto la pioggia”, portano al festival, nella sfrenata libertà del grande schermo il technicolor di Russell Metty o la qualità “patinata smaltata, coloratissima, lucida e gaia” (Franco La Polla) dei musical della Metro come non li avevamo mai visti, noi baby boomers. La pellicola è un’ala di farfalla, diceva Pasolini, e settant’anni sono un tempo infinito per il cagionevole nitrato d’argento.
“Ieri sera in piazza Maggiore gli occhi verde-grigio di Lauren Bacall e quelli azzurri di Dorothy Malone erano talmente grandi che ci si poteva nuotare dentro”, ha scritto su facebook un amico. È vero.