L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. Da quella data l’Assemblea ha chiesto ai governi, alle organizzazioni internazionali e alle ONG di promuovere e organizzare in quel giorno attività dedicate a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne. Il 25 novembre fu scelto come data per ricordare la barbara uccisione, nel 1960, di tre giovani sorelle nella Repubblica Dominicana, ovvero Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, attiviste politiche che si opponevano alla dittatura del regime di Rafael Leonidas Trujillo. Impegnate politicamente contro una dittatura, che per il solo fatto di esserla, era maschilista e feroce, anni di soprusi e barbarie sulla popolazione trovarono sfogo ulteriore nel massacro delle tre ragazze e nella simulazione, peraltro non riuscita, di un incidente automobilistico.
Fu scelto l’arancione come colore simbolo di questa giornata e delle azioni da intraprendere per celebrarla. In molte nazioni, tra cui l’Italia, il colore utilizzato è il rosso, come il tanto sangue versato dalle donne e per questo uno degli oggetti divenuto l’emblema più utilizzato sono le scarpe rosse da donna, esposte nelle piazze o in luoghi pubblici, a rappresentare, testimoniare le vittime di violenza e femminicidio.
Femminicidio, già, una parola abbastanza nuova per identificare con un termine unico atroci misfatti, identificati con altri termini, dall’uxoricidio allo stupro, ripetutisi dalla notte dei tempi sulle donne. Tutto nacque dall’ idea di una installazione dell’artista messicana Elina Chauvet, “Zapatos Rojos”, appunto “Scarpette rosse”, realizzata nel 2009 in una piazza di Ciudad Juarez, città di frontiera in Messico, a seguito dell’omicidio della sorella per mano del marito, ma soprattutto rivolto alle centinaia di donne rapite, stuprate e assassinate in questa città, purtroppo nota anche come mercato della droga e degli esseri umani. Questa installazione è stata replicata successivamente in moltissimi paesi del mondo, come altre nazioni sudamericane, Stati Uniti, Norvegia, Canada e Italia. Ogni paio di scarpe rappresenta un’altra martire, con le altre in marcia in un corteo di fantasmi di donne che han perso la vita per colpa della violenza di genere, nell’indifferenza generale, là in Messico come in tanti altri posti spesso ignorate dalle autorità locali e internazionali. Le scarpe rosse sono così diventate il simbolo delle vittime di violenza.
Violenza su una donna: esistono migliaia di pubblicazioni e studi, medici e di psicologia, che analizzano questo atto maschile di predominio, sottomissione di una donna, sia moglie o compagna, figlia o familiare, attraverso abusi, sia fisici che psicologici. Donne picchiate, umiliate, derise, abusate, distrutte, fino all’atto estremo. Le motivazioni, da condannare ovvio, sono di ordine psicologico e di cultura, quasi patriarcale, spesso anche di insegnamenti religiosi, assorbiti da generazioni: l’uomo è più forte e comanda, la donna deve obbedire, dimenticandosi nel migliore dei casi che la donna è un essere umano, che di quell’uomo si è fidata, gli ha donato amore e sé stessa. La morte, ne veniamo a conoscenza purtroppo quasi tutti i giorni, è l’atto conclusivo, preceduto magari da anni di soprusi, angherie, sia fisiche che verbali, che annientano e distruggono prima ancora la psiche e poi il fisico della vittima.
Il titolo di questo scritto è “Il pane e le rose”, ma perché? Tutto nasce tanti anni prima di quel 1999 e della decisione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Siamo a Lawrence, Massachusetts, il 12 gennaio 1912: inizia uno sciopero delle lavoratrici tessili di varie fabbriche contro una riduzione dei salari e per la richiesta di una miglior qualità della vita, che durerà due mesi. La manodopera tessile era prevalentemente composta da donne e bambini, tanti immigrati, quasi schiavizzati come turni, condizioni operative, salvaguardia della salute e dei rischi sul posto di lavoro. Lawrence era nota come “Immigrant City”, gli abitanti erano di 51 paesi diversi, tantissimi polacchi, praticamente tutti impegnati al lavoro nelle tante tessitorie locali. Le condizioni di vita nelle tessitorie erano terribili: l’aspettativa di vita era di meno di 40 anni per gli operai, quasi la metà moriva dopo dieci anni di lavoro. La morte per lo più era dovuta a complicazioni respiratorie, polmonite a causa delle polveri prodotte nei processi di produzione. Inoltre un numero altissimo di lavoratori era composto da bambini, anche loro senza alcuna tutela per aiutare la propria famiglia. Le proteste erano iniziate chiedendo un abbassamento di orario settimanale di lavoro, lo Stato lo concesse a donne e bambini, da 56 a 54 ore settimanali, ridicolo, ma nello stesso momento furono abbassate le paghe in misura proporzionale. E allora partì una durissima contestazione. In quei giorni di protesta violenta venne alzato uno striscione con questa frase poi divenuta storia e anche un inno, una poesia come slogan, una canzone: “We want bread and roses too” (“Vogliamo il pane ma anche le rose”).
Le donne richiedevano in poche parole quello che dovrebbe essere in una società giusta, corretta e solidale, su cui basare la loro emancipazione, abolendo la divisione in classi e di genere, cancellando l’oppressione, sia economica che quella portata da una errata concezione della figura dominante maschile, il rispetto. Le operaie donne espressero come attraverso l’organizzazione della classe operaia si lotta per abbattere distinzioni di genere, etnia e linguaggio. Il luogo comune della donna fragile, incapace di esprimere richieste e diritti venne infranto con una partecipazione corale. Gli operai, come detto provenienti da decine di nazioni diverse, tra l’altro francesi, siriani, russi, armeni, fiamminghi, canadesi, polacchi, italiani, si ersero come una sola donna, senza barriere linguistiche e di etnia, con un unico sentimento colpirono e colpirono duro, tra scontri con la polizia e risse. Si tennero assemblee molto affollate e tutti avevano diritto di parola e di rappresentanza della propria nazionalità e nei picchetti e ai cortei, i lavoratori portavano striscioni che dicevano “Bread and Roses” (“Pane e Rose”). La frase deriva da un concetto espresso da Karl Marx sul Comunismo, ovvero “è pane e rose, il necessario e il superfluo, una società dove si mangia meglio e di più (non solo pane), dove si lavora meglio e di meno, ma anche una società dove si è più felici, realizzati, liberi”.
Le madri furono costrette a mandare lontano i propri figli, presso parenti o famiglie amiche, si calcola che furono in migliaia sui treni, dopo tumulti e con la polizia che le picchiava, anche tanti arresti; questo creò per l’epoca uno scandalo, che ebbe ripercussioni a mezzo stampa, creando movimenti di opinione e partecipazione anche da altri Stati alle lotte. Le donne di Lawrence continuavano a portare i bambini alla stazione dei treni, la polizia cominciò a picchiarle e arrestarle davanti ai loro figli, creando un colossale scandalo mediatico e polarizzando l’opinione pubblica in favore dello sciopero. Il Congresso fu costretto a intervenire e il 14 marzo, i proprietari delle fabbriche acconsentirono ad aumenti generali dei salari del 15%, con anche un aumento della paga per gli straordinari, e la promessa di non esercitare ritorsioni contro gli scioperanti. Il risultato più ampio fu che oltre duecentomila lavoratori tessili, in altri stati, si videro riconosciuti salari simili a quelli di Lawrence, dato che gli imprenditori temevano che i loro operai potessero sollevarsi nella stessa maniera.
In breve questa affermazione diventa un grido di battaglia per la libertà e l’equità sociale e del lavoro, portata avanti da Rose Schneiderman (nata a Sawin, Polonia, 1882 – New York, 1972), da famiglia ebrea ortodossa e ben presto affermatasi come leader femminista, una tra le più famose figure sindacali, che fece della sensibilizzazione sulla mancanza di sicurezza delle condizioni di lavoro la sua battaglia principale fino, con il suo impegno e quello delle “suffragette”, a ottenere il risultato positivo del referendum nello stato di New York del 1917, che accordò alle donne il diritto di voto. Il tutto venne amplificato dalla poesia “Bread and Roses” di James Oppenheim, del dicembre 1911, che divenne poi il testo di una canzone omonima, che verrà cantata in mille manifestazioni e marce, tra gli interpreti Judy Collins, John Denver, Joan Baez e Angelo Branduardi nell’album omonimo nel 1988. Va ricordato che sull’onda della fama del brano, nel 2000 il regista britannico Ken Loach diresse un film con quello stesso titolo, “Bread and Roses” (“Il pane e le rose”), mettendo su pellicola tematiche per lui importanti e vicine, come la precarietà del lavoro, le tante lotte degli operai per affermare i loro diritti e la parità salariale, le ingiustizie sui luoghi di lavoro e i soprusi di stampo sociale. Certo guardando all’oggi sembra che cento e più anni siano passati invano. Valori e diritti sacrosanti che vengono ancora richiesti, non tutelati e che costituiscono oggetto di battaglie sindacali e sociali.
Allora, al loro fianco cento anni dopo, celebriamo le donne e la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, ancora purtroppo attuale, contro qualunque violenza, cantando con loro:
Mentre marciamo e marciamo nella bellezza del giorno,
un milione di cucine annerite, mille lucernari di fabbriche grigie,
sono inondate da tutto il fulgore che un sole improvviso dischiude,
per chi ci ascolta cantiamo: “Pane e rose! Pane e rose!”
Mentre marciamo e marciamo, noi ci battiamo anche per gli uomini,
perchè sono figli di donna, e noi le loro madri.
Le nostre esistenze non saranno sfruttamento
dalla nascita sino alla tomba.
I cuori patiscono la fame come i corpi,
dateci il pane, ma dateci anche le rose!
Mentre marciamo e marciamo, innumerevoli donne morte,
piangono, attraverso il nostro canto,
il loro antico lamento per il pane.
Il loro spirito stremato conobbe poca arte,
poca bellezza e poco amore.
Si, è per il pane che combattiamo,
ma noi combattiamo anche per le rose!
Mentre marciamo e marciamo, noi portiamo giorni grandiosi.
La riscossa delle donne significa la riscossa dell’umanità.
Non più chi si massacra di lavoro e chi ozia,
i tanti che soccombono alla fatica e i pochi che riposano,
ma la condivisione delle glorie della vita: pane e rose!
Fotocomposizione di apertura dell’autore