La marcia della pace di Roma ha dimostrato il 5 novembre scorso che c’è un’Italia antropologicamente diversa. Che crede ancora nel pacifismo senza “se” e senza “ma”. Senza i sofismi che vengono dalle contestazioni di chi taccia di pressapochismo e qualunquismo una dimostrazione di piazza che pretende il tavolo della trattativa e ripudia l’uso delle armi, in omogeneità con quanto scritto e iscritto nella Costituzione italiana.
Piazza San Giovanni non riusciva a contenere questo popolo civile che non nominava Putin e Zelenski, ma rispondeva a centinaia di sigle della società civile e che con ogni probabilità non corrispondeva all’attuale assetto del Parlamento e del Senato della Repubblica, complice una sciagurata legge elettorale. Impossibile per termini di impegno e prospettiva il confronto con la manifestazione di Milano. Numericamente un confronto da 100 a 1, con un partito (il Pd) penosamente aggrappato a tutti i due eventi ma in realtà incapace di una reale e chiara posizione.
Un aneddoto personale. Mi sono svicolato dal concentramento poco prima dei discorsi finali i più attesi e, stanco per i 7 chilometri di camminata, mi sono concesso un taxi fermato a Piazza Santa Maria Maggiore. Mi aspettavo che il conducente facesse polemica, more solito, con la solita manifestazione che gli aveva complicato le corse e diminuito gli incassi. Invece il signore anziano che mi ha portato a casa stava ascoltando in diretta Luigi Ciotti di Libera, autore del discorso più applaudito e vibrante tra quelli ascoltati dal palco. Venti minuti di attenzione mia e sua in assoluto silenzio. Per commuoverci e emozionarci insieme, senza parole.
Ai pacifisti interessa che ogni giorno non scorra più ulteriore sangue, che la fine della guerra coincida con un tavolo di trattative e con un inevitabile compromesso. In ragione della vita umana, nel rispetto dei popoli ma anche del diritto internazionale, costantemente violato (evitiamo di discutere su quale versante, non è così scontato). Eppure una manifestazione genuina, spontanea, verace, propiziata dal basso, senza etichette partitiche, ha incontrato lo stigma di chi evidentemente sposa la tesi della guerra perenne, quella che piace tanto alle industrie belliche e agli approfittatori della futura ricostruzione dell’Ucraina. Christian Rocca, direttore del LInkiesta si è prodotto in questa feroce sinossi per descrivere la giornata: «L’Internazionale populista, da Conte a Salvini, da Trump a Le Pen, si mobilita per disarmare l’Ucraina e consegnarla a Mosca. Ma c’è un’Italia che canta Bella Ciao (Calenda, stonatissimo, ndr) ed è solidale con un popolo che una mattina si è svegliato e ha trovato l’invasore». Secondo questa tesi i partigiani erano a Milano e gli anti-partigiani a Roma, dunque forse manifestanti fascisti.
Lasciamo al lettore il compito di giudicare. Certo, immaginare Landini, Ciotti e Pancho Pardi seguaci di Putin richiede un grande sforzo di immaginazione (o di malafede). Ma prendiamo il commento di una testata come “Il Messaggero” che confina l’evento a pagina 6 riservando all’articolo lo stesso spazio della manifestazione di Milano a pagina 7, collocata a specchio. Mario Ajello scrive: «La piazza dei pacifisti grida solo contro la Nato». E ancora: «La guerra è brutta, la pace è bella e sul resto si sorvola. In questa grande adunata Conte viene trattato come Gandhi». Un’irrisione che ci fa pensare che se l’opinione pubblica può fare a meno dei quotidiani un motivo di fondo c’è. E glielo fornisce proprio chi deforma i fatti a misura della propria ideologia. Ma soprattutto sui calchi di quella del proprio editore (Caltagirone).
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