C’è un grido di pace che sale da tante parti del mondo. Come far sì che esso venga ascoltato tanto da sovrastare il rumore delle armi e della guerra, tornata anche sul continente europeo? Come fronteggiare gli squilibri e le ingiustizie che producono quelle armi e quella guerra? E che cosa possono fare le religioni, oltre alla politica, per mettere in moto questo processo? Ecco il tema dei tre giorni di incontri organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio dal 23 al 25 ottobre a Roma, ai quali hanno partecipato leader e credenti di varie religioni, uomini politici, umanisti laici.
Quel “grido di pace” che ha dato il titolo all’incontro è, come ha detto Andrea Riccardi, fondatore della Comunità, “il grido di dolore di chi soffre guerra e povertà”, è la “richiesta di un futuro più umano”. Ma, come ha sottolineato il presidente Sergio Mattarella, arrivare alla pace è “un lavoro faticoso che richiede cura e opera paziente, perché la pace è tale solo se porta con sé l’antidoto contro l’insorgere di nuove guerre, se è sostenibile nel tempo e se è ampiamente condivisa”. La fatica sta nella costruzione di un dialogo che in alcune situazioni sembra precluso, assolutamente impossibile da realizzare. E che proprio per questo, come ha aggiunto lo stesso Capo dello Stato, “ha bisogno di coraggio, di determinazione, di volontà politica e di impegno dei singoli”. Ci sono però due ingredienti fondamentali senza i quali quell’impegno non può scattare: da una parte la memoria, dall’altra l’immaginazione. Quella che Riccardi chiama “la smemoratezza eccitata del presente” ha creato negli anni “l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia”. “Si sarebbe indotti a pensare – come dice Mattarella – che l’umanità non sia in grado di imparare dai propri errori”. Come scriveva Hannah Arendt, “memoria e profondità sono la stessa cosa, o meglio l’uomo può raggiungere la profondità solo attraverso la memoria”, soltanto così ci si può ribellare ai “prepotenti semplificatori del nostro tempo”. Ma ciò non basta ancora: quando le alternative si riducono a sentieri quasi impercorribili, serve qualcosa di più, è necessario dare respiro all’immaginazione, “immaginare – per dirla con Riccardi – visioni di pace con più audacia”, come ci invita a fare una poesia di Muhammed Iqbal, considerato il padre spirituale del Pakistan: “Abbi dunque l’ardire di crescere, osa! Non è così stretto lo spazio!”. O come scrive il rabbino Haim Korsia: “Occorre reinventare le aurore”. “Perché immaginare la pace in tempi di guerra – ha detto il presidente Emmanuel Macron – è la cosa più grande delle cose impensabili”.
Ma da sola la politica non ce la può fare. Serve il contributo prezioso delle religioni. Ed è per questo che la Comunità di Sant’Egidio ha ritenuto fondamentale la partecipazione attiva all’incontro di leader religiosi provenienti da tutto il mondo. Una partecipazione che avesse il suo comune denominatore, il suo senso ultimo, in quella che Riccardi ha ricordato come la “svolta di Assisi” del 1986, quando Giovanni Paolo II propose la visione di religioni non schierate l’una contro l’altra ma impegnate insieme a pregare per la pace, a dialogare, ad ascoltarsi. Una visione deturpata purtroppo da quelle comunità religiose che, come ha ricordato Riccardi, “si sono chiuse nel separatismo, che hanno sacralizzato le identità nazionali, che hanno perduto l’anima con la violenza, il terrorismo e il radicalismo, allontanandosi dalla religione, pur presentandosi invece come autentica religione”. Alla “guerra santa” va dunque sostituita la “pace santa”, per dirla con le parole di Mattarella.
Memoria, immaginazione e soprattutto dialogo: un impegno che tuttavia, per avere un peso non insignificante nella costruzione della pace, non può limitarsi a ordinare di metter giù le armi, ma deve soprattutto rintracciare in ogni luogo e in ogni tempo, come dice Macron, “le umiliazioni e le fonti di risentimento” che sono all’origine delle guerre, in nome di un “universalismo” che deve significare sentirsi tutti “figli e figlie dello stesso cielo”. È così anche per Riccardi, secondo il quale “le religioni non sono fossili, sono organismi vivi che raccolgono gli aneliti di comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone”. Ma cercare in profondità le cause delle guerre apre scenari e interpretazioni che possono essere anche molto differenti, come ad esempio i giudizi sulla globalizzazione, fonte di benessere ma anche di ingiustizie. O come i giudizi sui nuovi esacerbati nazionalismi. A cominciare da quello russo, che ha prodotto la sciagurata invasione dell’Ucraina. Secondo il presidente Macron, “la pace oggi non può essere la consacrazione della legge del più forte, né il cessate il fuoco che cristallizzerebbe uno stato di fatto”.
Mattarella è sulla stessa linea: la pace non deve ignorare “il diritto a difendersi” e non deve distogliere “lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito. Avvenga in Europa, in Medio-Oriente, in Africa, ovunque nel mondo”. Altrimenti si creano inevitabilmente nuove ingiustizie e nuove guerre. Non è un caso se nel suo piccolo saggio “Per la pace perpetua” (che Macron ha voluto regalare a Papa Francesco) Kant scrive che “non può essere riconosciuto come trattato di pace quel trattato che porta con sé le radici di una nuova guerra”. Per questo “l’urlo della sofferenza e il grido della pace che viene dalle donne e dagli uomini del pianeta” – come sostiene in conclusione Mattarella – va tradotto “in atti concreti che diano forza a un impegno condiviso e traducano in realtà la comune speranza”.
Foto di apertura di Alessandra Ferranti