Già, una piccola storia ignobile. Una ragazza, una famiglia normale, confessa alla madre di essere incinta. Le dice anche che il giovanotto di cui si era innamorata, da parte del quale si sarebbe aspettata una assunzione di responsabilità, non ne vuole sapere e la lascia al suo destino, al massimo dandole dei soldi e via. La ragazza seppur «allevata fra valori cristiani di famiglia, religione e onestà», ascolteremo poi, si innamora e rimane incinta. Consideriamo anche i valori morali dell’epoca, gli insegnamenti che non c’erano. Lei è figlia di una famiglia e di una società ignorante, bigotta, nella quale di certi argomenti non si fa menzione. Magari è ignara del proprio corpo e della sessualità.
Verrà ripudiata dall’intera famiglia, dall’ambiente provinciale, paesano in cui lei è cresciuta e dagli altri, tutti. I suoi stessi genitori puntano il dito. Non c’è una legge che la protegga e tuteli, la società intorno a lei invece si erge a giudice e la ripudia. Si ritroverà distesa su un lettino, senza nessuna sicurezza e igiene, a interrompere una gravidanza che è considerata una vergogna. In una epoca dove la pratica illegale prevedeva “mammane”, donne che si prestavano, pagate, a interrompere la gravidanza con soluzioni rischiose per la puerpera. “Mammane”, persone rozze e senza nessuna pratica medica. Alle volte armate solo di una ciotola con acqua calda, di un cucchiaio di ferro. Il risultato erano infezioni, setticemia e spesso la morte.
Cosa rimane? Una sola vittima: la donna. Occorre riflettere: tali aborti clandestini spesso erano motivati da violenze in famiglia, incesti, stupri, di cui la donna era sempre vittima, consapevole, ma spesso nemmeno. Vittima direi, sempre. La cosa che più inorridisce, nella canzone che sottopongo al lettore, ma sicuramente anche nella vita quotidiana, è la mancanza assoluta di emotività, di partecipazione da parte della madre alla messa in pratica dell’aborto. A quella unica soluzione finale verso la quale la protagonista viene praticamente obbligata. Inoltre quello che più colpisce è che sempre le donne vittime sono colpevolizzate da altre donne. Per esempio la madre della giovane donna dovrebbe essere la persona più indicata a capire ed aiutare la figlia, a starle vicino nella sua solitudine. Ma ormai la morale comune, la mentalità maschilista che le hanno insegnato da bimba la spinge a schierarsi apertamente dalla parte della maggioranza e contro la propria stessa carne.
Ho scelto questa canzone di Francesco Guccini, dall’album “Via Paolo Fabbri 43” del 1976. Un anno prima, appunto nel 1975, viene pubblicato un libro di Oriana Fallaci “Lettera a un bambino mai nato”, dopo anni di manifestazioni, scioperi e cortei femministi, e non solo, che reclamavano una legge. Fu come se lei avesse gettato un sasso in uno stagno immobile, per certa giurisprudenza. Fu un successo, ma anche l’avvio, formalmente, di un serio ragionamento sulla questione dell’aborto. Allora in Italia l’interruzione volontaria della gravidanza era ancora illegale, solo dal 22 maggio 1978, con la legge 194, verrà sancito il diritto a un aborto pubblico e gratuito, in una struttura pubblica, nei primi 90 giorni di gestazione, permesso tra il quarto e il quinto mese solo per motivi di natura terapeutica. Ma, c’è sempre un ma, consentiva ai medici l’obiezione di coscienza. D’altronde in una nazione con al suo interno due piccoli stati, uno dei quali di “struttura religiosa”, cosa ci si poteva aspettare? Salvo poi magari “obiettare” in cliniche private e a pagamento.
Infatti qualche anno dopo, il 17 maggio 1981, gli italiani furono chiamati al voto per i due referendum abrogativi che volevano modificare la legge. Da una parte c’era la proposta del Partito Radicale, dall’altra quella del Movimento per la vita, che chiedevano l’abrogazione di alcune norme della legge 194 sull’aborto, ma in senso diametralmente opposto: la prima per facilitarne il ricorso, la seconda per restringerne l’ambito di azione. Gli italiani alle urne respinsero tutti e due i quesiti. E veniamo ad oggi: alcuni esponenti del governo di destra-centro, già in campagna elettorale, hanno puntato a una riforma della legge, addirittura proponendo di modificare l’articolo 1 del Codice Civile, quello che prevede il riconoscimento dell’acquisizione della capacità giuridica non dalla nascita, come oggi, ma già al momento del concepimento, creando così una possibile confusione di casistiche e di illegalità. Dobbiamo opporci a cambiamenti che snaturino lo spirito della legge. Va migliorata casomai, ma sempre a favore della donna. Ogni tentativo legislativo di opporsi alla libera procreazione e alla maternità responsabile, magari con il volto della “moralità”, è una vera e propria violenza a danno delle donne.
L’ipotesi di affermare con un decreto legge che il feto è una vita formata, al momento del concepimento, vuol dire dimenticare che la vita è sacra anche per tutte le madri, anche per quelle violentate. Si dimentica altresì che per secoli, attraverso l’aborto illegale e clandestino, la vita della madre non è mai stata considerata parimenti sacra. E la madre, la donna, è una vita umana già in essere. Per innumerevoli situazioni, nascoste, taciute, per vergogna, la madre ha potuto benissimo soccombere “per dare la vita”. Tanto, secondo una ottica malata non è mai lei a poter decidere; è stata creata per obbedire. E se caso mai osasse ribellarsi, deve obbedire e basta. Mai più deve accadere!
Veniamo al 2000, quando Annie Ernaux, insegnante e femminista, finalmente Premio Nobel per la Letteratura 2022, pubblica “L’événement”, in italiano “L’evento”, una sua autobiografia. A Rouen, in Francia, lei, studentessa universitaria di ventitré anni, siamo nel 1963-1964, lei è lontana dalla sua famiglia e da casa. Ovviamente è poco preparata alla vita. Dopo dei rapporti con un coetaneo si rende conto di essere incinta. È una esplosione di paure e sentimenti, solo l’uscita dal tunnel la libererà. Sente il bisogno di raccontarsi, di ritrovare in fondo alla memoria i suoi ricordi di quasi quaranta anni prima, nel dolore e nella lucidità dell’espressione. Affermerà poi che la sua vita è divisa a metà, ovvero prima e dopo l’aborto. La solitudine, la ricerca di un aiuto. Trova qualcosa ma si rivela una macellaia. In parte deve fare da sé, in un bagno mezza svenuta, il suo dolore diventa il nostro, una cosa orrenda di cui non parlare a nessuno, perché nessuno capirebbe, ma nello stesso tempo deve risolvere, così che la sua testimonianza avvalora, se ce ne fosse bisogno, ricordi e altre situazioni identiche, quasi un grido sociale.
Allora ascoltiamola questa canzone, quasi parlata, macerata nell’animo dell’autore, quasi ne abbia avuto notizia lui stesso, riflettiamo:
Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare
Così solita e banale come tante
Che non merita nemmeno due colonne su un giornale
O una musica o parole un po’ rimate
Che non merita nemmeno l’attenzione della gente
Quante cose più importanti hanno da fare
Se tu te la sei voluta, a loro non importa niente
Te l’avevan detto che finivi male
Ma se tuo padre sapesse qual è stata la tua colpa
Rimarrebbe sopraffatto dal dolore
Uno che poteva dire: “Guardo tutti a testa alta”
Immaginasse appena il disonore
Lui che quando tu sei nata mise via quella bottiglia
Per aprirla il giorno del tuo matrimonio
Ti sognava laureata, era fiero di sua figlia
Se solo immaginasse la vergogna
Se solo immaginasse la vergogna
E pensare a quel che ha fatto per la tua educazione
Buone scuole e poca e giusta compagnia
Allevata nei valori di famiglia e religione
Di ubbidienza, castità e di cortesia
Dimmi allora quel che hai fatto chi te l’ha mai messo in testa
O dimmi dove e quando l’hai imparato
Che non hai mai visto in casa una cosa men che onesta
E di certe cose non si è mai parlato
E di certe cose non si è mai parlato
E tua madre, che da madre qualche cosa l’ha intuita
E sa leggere da madre ogni tuo sguardo
Devi chiederle perdono, dire che ti sei pentita
Che hai capito, che disprezzi quel tuo sbaglio
Però come farai a dirle che nessuno ti ha costretta
O dirle che provavi anche piacere
Questo non potrà capirlo, perché lei, da donna onesta
L’ha fatto quasi sempre per dovere
L’ha fatto quasi sempre per dovere
E di lui non dire male, sei anche stata fortunata
In questi casi, sai, lo fanno in molti
Sì, lo so, quando lo hai detto, come si usa, ti ha lasciata
Ma ti ha trovato l’indirizzo e i soldi
Poi ha ragione, non potevi dimostrare che era suo
E poi non sei neanche minorenne
Ed allora questo sbaglio è stato proprio tutto tuo
Noi non siamo perseguibili per legge
Noi non siamo perseguibili per legge
E così ti sei trovata come a un tavolo di marmo
Desiderando quasi di morire
Presa come un animale macellato stavi urlando
Ma quasi l’urlo non sapeva uscire
E così ti sei trovata fra paure e fra rimorsi
Davvero sola fra le mani altrui
Che pensavi nel sentire nella carne tua quei morsi
Di tuo padre, di tua madre e anche di lui
Di tuo padre, di tua madre e anche di lui
Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi
Non vedo proprio cosa posso fare
Dirti qualche frase usata per provare a consolarti
O dirti: “È fatta ormai, non ci pensare”
È una cosa che non serve a una canzone di successo
Non vale due colonne su un giornale
Se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
E i politici han ben altro a cui pensare
E i politici han ben altro a cui pensare
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