Perentorio Edgar Allan Poe (Boston, 1809 – Baltimora, 1849) quando definisce la poesia “un atto divino”. Questa fulminante enunciazione costituisce, senza sua consapevolezza, lo sbocco finale della poetica che poi caratterizzerà il Simbolismo e molti poeti veggenti, esploratori dell’ignoto, tra cui emerge Arthur Rimbaud (Charleville, 1854 – Marsiglia 1891). È di quest’ultimo la puntualizzazione secondo la quale “solo l’amore divino conferisce le chiavi della conoscenza”, in virtù dell’ispirazione poetica, che, dunque, è da lui percepita come emanazione e dono dell’assoluto. In qual modo la poesia, dono d’amore divino, scenda nell’animo di Rimbaud, “poeta maledetto” ma anche “poeta veggente” per eccellenza, è chiaro dalla sua famosa espressione che non sarà mai abbastanza meditata: “Le poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens” (“Il poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato deragliamento [letteralmente deregolamentazione] di tutti i sensi”).
Essendo di derivazione divina, la poesia è una forma privilegiata di irruzione nei luminosi campi della Verità, limitata, invero, a pochi attimi felici, cioè al tempo necessario per cogliere un bagliore del divino, trasporlo su carta e rimanerne affascinati. Poesia è dunque fulgore di un aspetto ovviamente minimo del trascendente con quasi immediato rientro nella realtà terrena.
È forse per questo che Vladimir Majakovskij (Badati, Georgia, 1893 – Mosca, 1930) considerava la poesia un viaggio nell’ignoto e che Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 1930 – Ginevra, 1986) affermava che ogni poesia ha qualcosa di misterioso, perché nessun poeta sa realmente che cosa gli è stato consentito di comunicare? Giorgio Vigolo (Roma, 1894 – 1983), da parte sua, preferiva considerare la poesia un “furto sacro”. Viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda, Alda Merini (Milano, 1931 – 2009) aggiungeva di aver bisogno per dar sfogo alla sua attività poetica del silenzio della notte, quando la sua mente era aguzzata dal silenzio tutt’intorno a sé: “I poeti lavorano di notte/ quando il tempo non urge su di loro/ quando tace il rumore della folla/ e termina il linciaggio delle ore…Ma i poeti, nel loro silenzio fanno ben più rumore/ di una dorata cupola di stelle”. La poesia è come il silenzio degli spazi astrali e intergalattici, scintilla divina e, in ultima analisi, atto solenne di pace – parola di Pablo Neruda (Parral, 1904 – Santiago del Cile, 1973) – simbolo della atemporalità dell’eterno.
Atto puro, trascendente, bellezza immacolata, la poesia scomparve dal Paradiso terrestre, dall’Eden – ne è sicura Maria Luisa Spaziani (Torino, 1922 – Roma, 2014) – quando Adamo ed Eva, consumato il peccato d’orgoglio, cioè volendo essere uguali a Dio, persero il contatto col divino e presero a parlare in prosa. Venendo al nostro tempo, non stupisce dunque che la società moderna, in cui domina materialismo, edonismo, relativismo e nichilismo, sia insensibile alla Verità che il poeta, per così dire, accarezza. Lo aveva compreso già nell’Ottocento Alfred de Vigny (Loches, 1797 – Parigi, 1863), quando asseriva: “C’è un conflitto insanabile tra la società e il poeta. Il mondo è sordo alla sensibilità dei poeti, perché la poesia è fondata sulla verità, mentre la società, materialista e sorda ai sentimenti, è fondata sulla menzogna”. Credo che sia chiaro il distacco, nella vita terrena delle persone che è caratterizzata per definizione dall’incompiutezza, dalla verità insita nella poesia, che dà accesso, sia pure temporaneo, alla massima realizzazione e compiutezza dell’essere umano.
A proposito di incompiutezza umana, molto aveva da dire François René de Chateaubriand (Saint-Malo, 1768 – Parigi, 1848) quando, sotto l’effetto di un’incurabile malinconia, affermava: “Il cuore umano è uno strumento incompleto, una lira a cui mancano alcune corde, e in cui siamo obbligati a rendere gli accenti della gioia sul tono consacrato ai sospiri”. Chi conosce il grande poeta protoromantico sa che tutte le volte, poche, in cui parla di gioia, in realtà si riferisce alla felicità totale, quella felicità dunque a cui l’uomo tende irresistibilmente senza mai approdarvi nella vita terrena, quella felicità che è propria dell’aldilà cristiano, quella felicità che egli intravvedeva nella sua prosa poetica e che si potrà realizzare solo post mortem nell’abbraccio eterno del Creatore. Allora la vita di ciascun essere umano, la cui incompiutezza è palese nella misura in cui tende irresistibilmente verso il tutto senza mai raggiungerlo, rivela la sua inesorabile incompiutezza strutturale. A parte quei momenti magici, di cui dicevo all’inizio, e che inducono Edgar Allan Poe a considerare la poesia un atto divino, al pari, aggiungiamo noi, delle altre arti, come la pittura, la scultura, la musica ecc., la vita di ogni uomo deve fare i conti con la propria limitatezza, cioè con la propria mortalità, per cui sono due le vie che si aprono dinanzi a lui: o il nulla, che riduce ai minimi termini il senso della vita mortale, o la visione luminosa dell’aldilà. Nel primo caso la morte non può essere vissuta che come nemica, come annullamento dell’io e dei suoi aneliti; nel secondo caso, come esplicitamente afferma la poetessa psicoterapeuta Monica Cornali (n. 1966), la morte va considerata un dono di inestimabile portata, pur nell’inquietudine a cui sottopone gli umani, perché ci apre all’incontro con il mistero di Dio e, dunque, alla nostra massima possibile compiutezza. Esperta in formazione, ricerca e sostegno sui temi della Perdita, la Cornali coltiva un fecondo rapporto tra Psicologia e Spiritualità.
A suo avviso, la trascendenza, pur nell’inquietudine e nel dubbio che ci assalgono senza sosta, è apertura all’infinito ancor prima di qualunque adesione di natura religiosa. Siamo tutti circondati dal mistero della vita, che ci affascina e ci angoscia, ma soprattutto ci pone dinanzi alla nostra incompiutezza che reclama la compiutezza, la quale sta oltre la morte come tutta la storia umana del pensiero constata. Ogni persona, da sempre, si pone domande di senso: “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché la sofferenza?”. Ecco la necessità di confrontarsi con la realtà della morte, pur sapendo che sempre sarà accompagnata da dubbi, timori e paura. Monica Cornali ha una sua convinzione precisa: “Morire non coincide con un punto, quello di cessazione delle funzioni biologiche, ma corrisponde a un processo in atto durante tutto il ciclo della vita”. Propone quindi una spiritualità della finitudine, “che consiste nel far pace con il proprio essere mortali e può diventare cammino sapienziale che apre alla speranza e orienta il desiderio di eternità che abita in fondo al cuore umano”. Facendo riferimento alla sua professione di psicoterapeuta, afferma che le consente di attingere ai vissuti più profondi della persona. Dietro i disagi psichici ella individua una domanda di senso irrisolta: “Tutti abbiamo paura della morte – afferma su “Famiglia Cristiana” (n. 44 del 30/10/2022) – perché abbiamo dato alla vita una pretesa di compimento totalizzante”, che, come ciascun sa, essa non può dare. Spesso, nella vita, confondiamo il compimento cui tutti tendiamo con il successo effimero anche se eclatante, in una parola con la pretesa di una onnipotenza a buon mercato e, comunque, senza domani perché ci delude sempre. Presi dal desiderio di compimento illimitato dei propri sogni durante la sola vita terrena e nutrendo sogni vani di onnipotenza, siamo destinati al fallimento dalla presenza ingombrante della morte che non potremo mai esorcizzare.
In che modo la poesia può favorire il vero compimento dell’uomo? Anzitutto, dando accoglienza “al tabù della morte, madre di tutte le angosce” per potere così “accedere a un orizzonte di significato trascendente e luminoso”. Muovendosi su questo versante di spiritualità della finitudine che sfocia nel desiderio di eternità, la poesia è sempre una forma di preghiera, di volontà di frequentare gli orizzonti del trascendente. Anche quando il poeta se ne ritiene lontano. In altri termini, se apre uno squarcio dell’aldilà rispondendo al desiderio, all’ansia di trascendenza, di infinito che è iscritta nel cuore e nella mente dell’uomo, in quanto uomo, la poesia è sempre una forma di preghiera, là dove preghiera è tentativo e slancio di sintonizzazione con l’eterno.
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