L’immagine e la storia di una sconosciuta ha dato vita a una delle canzoni più popolari e, ascoltandola bene, più dolorose del 20°secolo. Lei è “Marinella”, quella di Fabrizio De Andrè, un brano del 1964.
Lo scorso mese, il 25 novembre, è stata la ricorrenza della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, contro i femminicidi, col fine di organizzare attività dedicate a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne. E dai numeri che la cronaca ci sottopone, ancora nel 2022, purtroppo c’è ancora tantissima strada da fare per cambiare, terminare certe mentalità.
Ma negli anni sessanta il termine femminicidio non era conosciuto, anche se i giornali dell’epoca, purtroppo ancora oggi ai giorni nostri, riportavano episodi di donne uccise dal marito, in famiglia, dal fidanzato, mentre sulle prime pagine trovavano spazio il boom economico, le tensioni della guerra fredda, la guerra nella giungla in Corea e poi il Vietnam. Il nostro “miracolo economico italiano” riempiva le menti di sogni e si cominciava a guardare la TV. Era una Italia che cambiava vorticosamente, tra l’arrivo dei soldi del Piano Marshall, le rimesse dei milioni di italiani che lavoravano e morivano nelle miniere e nei campi in nord Europa e in America Latina. Sembra a ruoli invertiti quello che succede oggi in Italia e non solo. Poi l’arrivo della prima droga, roba per ricchi, festini con alcool e sesso; il fatto che “Marinella” finì in un giro di prostituzione e fu uccisa, non autorizza né giustifica nessun atto di violenza, mai.
Tutto nasce da un articolo che il grande poeta e cantautore Fabrizio De Andrè (Genova, 1940 – Milano, 1999) lesse su questo caso, che per anni occupò la stampa scandalistica e di cronaca nera, su una giovane ragazza, prostituta sedicenne, così riportavano i giornali per stimolare l’interesse dei lettori, che fu uccisa da un delinquente che la buttò in un fiume. De André rivive con la penna e le note il fattaccio, provando a trasformare la vita della donna e a rendere più dolce e meno dolorosa la morte, riuscendo a raccontare come una favola la vita di quel povero corpo ritrovato in acqua. Una favola con tanto di re, d’accordo senza carrozza e senza corona, ma allora è un re più umano, un uomo che ama, che le porta fiori e bussa alla sua porta, la desidera e la pone nel cielo come una stella. Poesia dolce e malinconica, pura, di un giovanotto genovese, criticato e scansato dall’establishment della musica, ma che piace ai giovani, con la sua e loro voglia di spezzare il quotidiano e ricostruirlo. Un poeta-trovatore che abbandona, seppur c’è nato, l’ambiente della Genova-bene e scappa nei carruggi, i vicoli dell’angiporto, solo e vagabondo, vicino agli ultimi, ai disperati, agli sconfitti, tra fumo di locali di quart’ordine e spazzatura, chiacchierando con le prostitute.
E’ così De Andrè narra la storia di Maria Boccuzzi, una ragazza che emigra da Reggio Calabria a Torino con la famiglia in cerca di fortuna, così come centinaia di altre famiglie dalla fine dell’800. Ovviamente, con tutte le difficoltà di inserimento e un ambiente familiare chiuso e retrogrado, si innamora di un ragazzo e a 15 anni scappa di casa. Lui la lascia poco dopo, torna a casa ma la famiglia la rifiuta, la dignità e l’onore prima di tutto, così fugge di nuovo, sbandata, passa da un uomo all’altro, diventa ballerina di 3a fila in locali malfamati, ha anche scelto un nome d’arte, Mary Pirimpo, ma poi finisce sulla strada protetta da un tale Carlone.
La mattina del 28 gennaio del 1953, viene trovata in acqua, lungo il greto del fiume Olona, a Milano, da un passante, con 6 proiettili in corpo. Il colpevole non verrà mai trovato. Ancora nell’arco del 2022 dobbiamo leggere che più di 120 donne sono state uccise, non deve interessare il movente, non c’è nessuna giustificazione. Solo un concetto, da un uomo come me a tutti gli uomini, ossia veneriamo e amiamo le donne che abbiamo vicino, che ci hanno dato la vita, che danno la vita, senza loro non siamo nulla, solo quando avremo fatto di questo la nostra ragione di vita potremo chiamarci esseri umani. Ascoltiamola allora questa canzone-poesia, viviamola negli accordi della chitarra, nello stesso momento pensiamo a quante ragazze, quante donne, vengono uccise senza che un qualcuno dedichi, forse poca cosa, una canzone alle loro vite strappate:
Questa di Marinella è la storia vera
Che scivolò nel fiume a primavera
Ma il vento che la vide così bella
Dal fiume la portò sopra a una stella
Sola e senza il ricordo di un dolore
Vivevi senza il sogno d’un amore
Ma un re senza corona e senza scorta
Bussò tre volte un giorno alla tua porta
Bianco come la luna il suo cappello
Come l’amore rosso il suo mantello
Tu lo seguisti senza una ragione
Come un ragazzo segue l’aquilone
E c’era il sole e avevi gli occhi belli
Lui ti baciò le labbra ed i capelli
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi
Lui pose le sue mani sui tuoi fianchi
Furono baci e furono sorrisi
Poi furono soltanto i fiordalisi
Che videro con gli occhi delle stelle
Fremere al vento e ai baci la tua pelle
Dicono poi che mentre ritornavi
Nel fiume chissà come scivolavi
E lui che non ti volle creder morta
Bussò cent’anni ancora alla tua porta
Questa è la tua canzone, Marinella
Che sei volata in cielo su una stella
E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno, come le rose
E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno come le rose
Foto di apertura: “Ragazza” – by Andriyko Podilnyk on Unsplash